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01. Tassonomia (parte III)

Verso una tassonomia con una comprensione più universale del vivente che ci circonda, per una nuova visione del mondo in termini filosofici, etici e scientifici. Più in generale, lo stimolo ad un nuovo approccio alla conoscenza scientifica, che prediliga alla base l’intuizione dei principi

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I. I due approcci

In accordo con Kitcher (1984, 309), “the species category is heterogeneous”, due sono infatti gli approcci principali per la demarcazione dei taxa specifici. Uno consiste nel raggruppare gli organismi sulla base di similarità strutturali, l’altro consiste invece nel raggrupparli secondo le loro relazioni filogenetiche. Tale scelta nell’approccio alla classificazione, si profila ovviamente anche per tutti gli altri taxa al di sopra del rango specifico. Per quanto ci riguarda, come già esposto nel nostro penultimo booklet (Anceschi & Magli 2013a, 13), in accordo con la moderna sistematica, per l’interpretazione dei taxa all’interno del nostro sistema tassonomico, optiamo per l’utilizzo di criteri filogenetici per ottenere una classificazione genealogica secondo Darwin (1859), o una classificazione naturale secondo Hennig (1966), espressi attraverso il sistema gerarchico Linneano (1753). Per la comprensione dei rapporti filogenetici tra i taxa, abbiamo poi evidenziato la nostra scelta circa l’utilizzo dei due distinti strumenti teorici ideati da Hennig (1966), per la definizione degli “higher taxa” da un lato e delle specie dall’altro. Vale a dire: 

1) per quanto riguarda i taxa supraspecifici, i’identificazione di sinapomorfie (caratteri ereditati da tutti i membri del gruppo, o clade, da un recente antenato comune), nel riconoscimento di taxa monofiletici (o taxa naturali), vs. taxa para e polifiletici (non naturali nel senso di Hennig) (Anceschi & Magli 2013a, 15). 

2) per la definizione delle specie invece, l’utilizzo della olomorfologia comparata (o olomorfia) tra semaphoronts (ibidem, 34), ricordando che Hennig (1966, 65), considera la figura del semaphoront il mattone fondamentale che sta alla base del sistema biologico, identificandolo come “... (the character bearer) ... the individual in a certain, theoretically infinitely small, time span of its life, during which it can be considered unchangeable.”.

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II. Sinapomorfie nelle analisi molecolari

Come già riportato (Anceschi & Magli 2018, 36: 74), dai tempi dello studio di Wallace (1995, 13: 1-12), nel corso delle ultime decadi, i cambiamenti a livello generico e nei taxa superiori nella famiglia Cactaceae, sono quasi sempre seguiti nuove evidenze emerse dalle analisi molecolari. Ne sono esempi Nyffeler (1999); Nyffeler & Eggli (2010); Schlumpberger & Renner (2012); Schlumpberger (2012); Charles (2012); Anceschi & Magli (2013a, 2013b); Hunt (2013); Lodé (2015). Tutti questi autori nella creazione dei loro sistemi tassonomici, invocano a sostegno della formazione dei loro gruppi, anche con esisti opposti, il principio di monofilia contrapposto a quelli di parafilia e polifilia. La contrapposizione del principio di monofilia a quello di parafilia, implica automaticamente il riconoscimento del sistema teorico ideato da Hennig (1966), essendo il concetto di parafilia un nuovo concetto proposto da questo autore. Prima di Hennig i sistematici generalmente riconoscevano due tipi di gruppi relativi alla filogenesi, i gruppi monofiletici e polifiletici, con l'eccezione di Naef, 1919 (Wiley & Liebermann, 2011). Come sopra ricordato, per la definizione dei taxa monofiletici a livello supraspecifico all’interno del sistema di Hennig (1966), bisogna poter essere in grado di distinguerli attraverso il riconoscimento di sinapomorfie. Ora, il riconoscimento di reali sinapomorfie al livello molecolare non è cosa semplice, in quanto i criteri qualitativi che identificano i gruppi di Hennig, cioè monofiletico basato su sinapomorfie (vedi sopra), parafiletico basato su simplesiomorfie (cioè come il primo, caratteri omologhi ereditati dalla specie ancestrale comune) e polifiletico se la somiglianza è dovuta a convergenza (cioè dovuta a caratteri analoghi, non derivati da un antenato comune) (1966, 146), spesso non sono facilmente identificabili. Alcuni ricercatori, per esempio Nyffeler & Eggli (2010), identificano nelle loro analisi l’assenza di 23 nucleotidi evidenziata nei rappresentanti di Parodia s.l., un carattere derivato (sinapomorfia), e la presenza degli stessi negli altri due gruppi in esame, un carattere primitivo (simplesiomorfia). Come già espresso (Anceschi & Magli 2018, 36: 74-75) “in our approach towards the definition of monophyletic groups, we find useful Nelson’s (1971: 472) redefinition of the concepts of paraphyly and polyphyly sensu Hennig. Nelson defines paraphyletic as groups lacking one species or monophyletic group, and polyphyletic as groups lacking two or more species or monophyletic groups.”. Sostanzialmente l’approccio di Nelson aiuta nella definizione dei gruppi monofiletici, dando ai criteri qualitativi ideati da Hennig, anche una veste quantitativa più comprensibile rispetto a quella fornita da quest’ultimo nel suo storico diagramma (1966, 148, fig. 45). Veste maggiormente fruibile, sopratutto nella scelta delle opzioni risultanti dai risultati forniti dai dati molecolari, dove non è sempre facile distinguere qualitativamente reali sinapomorfie derivanti da un recente comune antenato, rispetto al “rumore di fondo” creato dalle simplesiomorfie ereditate dai gruppi sotto analisi dalla comune “stem species”. Tornando alla moderna sistematica, relativamente all’utilizzo dei principi filogenetici di Hennig (1966) e dei suoi successori, cioè Nelson (1971), Farris (1974), Wiley & Liebermann (2011), vorremmo sottolineare che la condivisione di tali principi da parte della maggioranza degli attuali ricercatori, rimane spesso nell'ambito dell'accettazione a livello teorico, laddove nella pratica permane ancora nei più una chiara propensione al riconoscere taxa sulla base di similarità strutturali. 

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III. Il nuovo macrogenere Echinopsis monofiletico

Quando nel 2013, in seguito alla pubblicazione dei risultati delle analisi molecolari relativi alla filogenia di Echinopsis e generi correlati (Schlumpberger & Renner 2012, 99 (8): 1335-1349), decidemmo di optare per il macrogenere Echinopsis evidenziato dagli esiti delle analisi come l’ipotesi più convincente in termini filogenetici, non fu una scelta facile. Eravamo consapevoli dell’inizio di una nostra navigazione contro corrente, rispetto all’attuale approccio nel modo di fare scienza sostenuto dalla più parte della comunità scientifica. Come esposto sul nostro booklet dell’epoca (Anceschi & Magli 2013a, 22-29) e ribadito poi su Cactaceae Systematics Initiatives (2013b, 31: 24-27), le analisi evidenziavano un genere Echinopsis come all’epoca concepito, polifiletico. Si delineavano due possibili opzioni per interpretare i taxa esaminati come cladi naturali (o monofiletici nel senso di Hennig). La prima consisteva nell’assimilazione in Echinopis s.l. di altri 15 generi mai inclusi prima, tale soluzione era sostenuta dal massimo supporto (100% bootstrap support). La seconda divideva nuovamente Echinopsis in una dozzina di cladi, con la resurrezione di vecchi nomi generici e il trasferimento di epiteti a livello specifico. La prima identificava in modo semplice i generi delle Trichocereeae / Trichocereinae coinvolti nell'analisi da assimilare nel nuovo macrogenere come “Echinopsis groups with floral characters and/or pollination syndromes modified” (Anceschi & Magli 2013b, 31: 25). La seconda, era quella poi adottata in modo parziale da Schlumpberger (2012, 28: 29-31), in quanto non risolveva le relazioni interne dei cladi Cleistocactus sens. str. e Oreocereus in modo naturale nel senso di Hennig, oltre a creare confusione, perché i nuovi cladi proposti non erano caratterialmente definibili e quindi identificabili (Anceschi & Magli 2013a, 25-27; 2013b, 24-25). Vorremmo ricordare che lo strumento della sinapomorfia è stato disegnato da Hennig (1966) per definire “higher taxa”, nel suo lavoro: famiglie, sottordini, ordini, sottoclassi, classi, cioè grandi gruppi di specie, tali da mostrare caratteri quantitativi e qualitativi, per poter essere interpretati come ancestrali o derivati, e quindi trarre attendibili conclusioni filogenetiche sui taxa analizzati. Come già affermato (Anceschi & Magli 2018, 36: 74), “… the more a monophyletic group is extended to a large number of species and the more are the common derivative characters supporting it, the greater will be the probability that this group will be really monophyletic.”. Nelle parole dell'autore il concetto è riassunto come segue: “For phylogenetic systematics this means that the reliability of its results increases with the number of individual characters that can be fitted into transformation series.” (Hennig 1966, 132). Stiamo dicendo che basare filogenie invocando il principio di monofilia su gruppi costituiti da un basso numero di specie, è una contraddizione in termini Hennigiani. Tornando all’ipotesi filogenetica adottata da Schlumpberger (2012, 28: 29-31), coerentemente con la teoria di Hennig (1966), la prima opzione era talmente cristallina rispetto all’opacità della seconda, che come ricercatori e scienziati ci siamo sentiti imbarazzati davanti all’ennesimo misconoscimento dell’evidenza da parte di una scienza sempre intenta a procedere solo in modo induttivo, senza mai avere una visione d’insieme sui risultati delle sue dimostrazioni, sulla base dei principi che dovrebbero governarla. 

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IV. Quali lumpers?

Nel primo booklet cactusinhabitat (Anceschi & Magli 2010, 9), riguardo ai nomi da dare alle piante, argomentavamo sulle possibili “scuole di pensiero” adottate dagli specialisti in relazione alla classificazione degli esseri viventi, basicamente “…that of the “splitters” (those who divide, and mainly capture differences), and that of the “lumpers” (those who merge, and mainly capture similarities).” Vorremmo sottolineare che per quanto riguarda la famiglia Cactaceae A. L. de Jussieu, dalla prima importante monografia sulla famiglia cioè Gesamtbeschreibung der Kakteen (Monografia Cactacearum) di Karl Schumann (1897-99), nella quale l’autore riconosce 21 generi, dal 1920 in poi, cioè dalla pubblicazione del lavoro dei due botanici americani Nathaniel Lord Britton e Joseph Nelson Rose, che nei loro quattro volumi The Cactaceae (1919-23) dividono i 21 generi di Schumann in 124, tutti i successivi specialisti non sono mai scesi sotto il numero da loro riconosciuto. È degno di nota sottolineare che nella comprensione di Benson (1982), i connazionali Britton & Rose venivano sostanzialmente considerati i primi “splitters” nella storia di queste piante. Nella storia dell’approccio alla classificazione dei generi delle Cactacee, dopo i 124 generi di Britton & Rose, passiamo ai 233 riconosciuti dal collezionista tedesco Curt Backeberg in Kakteen Lexicon (1966), i cui metodi portano sicuramente all’apice nel frazionamento dei generi e delle specie all’interno della famiglia, per tornare poi ad un approccio più tradizionale (con comprensioni sostanzialmente analoghe a quelle del 1920), con Ted Anderson che riconosce 125 generi nel suo The Cactus Family (2001), Hunt et al., con 124 generi in The New Cactus Lexicon (2006), Nyffeler & Eggli, che riconoscono 128 taxa, a livello di genere (Schumannia 2010, 6: 109-149), come 128 generi sono ancora accettati da Eggli, come autore dell'ultima edizione tedesca del libro di Anderson, Das Grosse Kakteen Lexikon (2011). Un ritorno ad un maggiore frazionamento nella comprensione dei generi delle Cactacee è rappresentato invece dal lavoro del francese J. Lodé, che in Taxonomy of the Cactaceae (2015) alza nuovamente il numero dei generi riconosciuti a 177. Ora, pur nella considerazione che dalla monografia di Hunt et al. (2006), inclusa, tutti gli studi successivi si sono avvalsi in diverso modo degli esiti molecolari, è un fatto che la maggioranza degli specialisti riconosce più o meno lo stesso numero di generi riconosciuti da Britton & Rose (1920), la cui troppo “liberale” influenza era già stata sottolineata da Benson (Hunt et al. 2006, Text: 3). Risulta chiaro che dopo l’epoca Backeberg, qualsiasi altro approccio alla tassonomia della famiglia sarebbe sembrato maggiormente conservativo, ma nella pratica, dai 21 generi di Schumann (1897-99), con l’unica esclusione di Benson appunto, la cui monografia si applica però ai soli cacti di Stati Uniti e Canada (1982), nessun “lumper” è apparso all’orizzonte. Come già espresso (Anceschi & Magli 2018, 36: 74), in relazione al lavoro di Anderson (2001), “In general, the classification proposed by Anderson, by the author’s own admission (2001) corresponds more or less to the ICSG contemporary thought. There will always remain curiosity about the possible results of a more personal approach to the Cactus Family, led by the student of the only true “lumper” of modern times: Lyman Benson, to whom Anderson’s work was dedicated.”. 

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V. L’imprinting di Backeberg

L’approccio di tipo “collezionistico”, dato alla conoscenza della famiglia Cactacee da Curt Backeberg (1958, 1966), ha aiutato a creare una forte propensione alla divisione negli specialisti a lui contemporanei o immediatamente successivi (cioè Ritter, Buining, Rausch, etc.). Tale approccio, sostenuto poi con entusiasmo dagli appassionati di tutto il mondo (bisogna considerare che a tutt’oggi queste piante sono studiate fondamentalmente nelle serre, mentre poco tempo è dedicato al loro studio negli habitat naturali), ha lasciato un segno indelebile anche negli studiosi delle successive generazioni, collezionisti e tassonomi professionisti inclusi. Nelle parole di Hunt (1991, 152 citato da Anderson 2001, 98), “… [Backeberg] named 78 more genera and named or renamed 1200 species without, so far as I know, ever making (or citing) an herbarium specimen. He left a six-volume monograph of the family [Die Cactaceae] running to 4000 pages and a trail of nomenclatural chaos that will probably vex cactus taxonomists for centuries.”. L’imprinting di Backeberg risulta essere talmente naturale e durevole in alcuni ricercatori, che questi procedono sotto il suo influsso anche nell’epoca delle analisi molecolari. In “Two old men wandering in Northern Argentina”, Kiesling & Schweich (2019, 24: 33-47), affermano: “ We do not use “this” or “that” nomenclature, either old or recent, either based on modern concepts like DNA or old ones like the flower structure; we use “familiar names” that are “valid”. Names change periodically, the plants do not, and the article is focused on plants not names!”. Premesso che il pensiero occidentale è a conoscenza almeno dai tempi della teoria del flusso di Eraclito (Diels & Kranz 1903-1952, Herakleitos 22 A 6, 22 B 12, 22 B 49a, 22 B 91), che tutto cambia (piante incluse), e almeno dal Cratilo di Platone (Plato, Cratylus 384d-384e), che uno dei possibili significati dei nomi coi quali identifichiamo le cose è puramente di tipo tecnico-convenzionale (cioè dipendente da un accordo preventivo tra i parlanti circa una scelta tra distinte possibilità), vorremmo sottolineare che i “nomi validi” o “familiari” orgogliosamente utilizzati dai due autori nel loro articolo, sono quelli accettati dalla nomenclatura di Backeberg e dei suoi successori, non altri, con l’utilizzo dei relativi caratteri fiorali a contraddistinguerne i generi (Chamaecereus, Lobivia, Trichocereus, Soehrensia, etc.), le specie e le varietà. Questo dimenticando che da molto tempo, le analisi molecolari mostrano che i caratteri fiorali e le sindromi di impollinazione non sono più atti a distinguere taxa a livello di genere (Ritz et al. 2007; Lendel et al. umpubl. data & Nyffeler et al. umpubl. data in Nyffeler & Eggli 2010; Schlumpberger & Renner 2012; Anceschi & Magli 2013a, 2013b). Le evidenze molecolari mostrano inoltre altrettanto chiaramente che la più parte dei generi delle Trichocereeae/Trichocereinae (Schlumpberger & Renner 2012; Anceschi & Magli 2013a, 2013b), fanno parte di un macrogenere Echinopsis s.l. monofiletico ben supportato (cioè 100% bootstrap support). In accordo con Nyffeler & Eggli (2010), sia i dati molecolari, che la diffusa presenza di ibridi intra-generici (vedi Rowley 1994, 2004a, 2004b per la lista), indicano che le Trichocereinae hanno un'origine evolutiva relativamente recente [cioè circa 7.5-6.5 Ma, secondo Arakaki et al. (2011, 8380)], e che la divergenza genetica tra i vari taxa è di gran lunga inferiore rispetto alle differenze mostrate dagli stessi nei caratteri morfologici e fiorali. Riepilogando, se da una parte siamo consapevoli che criticare ora i metodi di Backeberg è anacronistico, dall’altra sottolineiamo che rifiutare di considerare nuove e rilevanti evidenze non è scientifico. 

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VI. Nomi “alternativi”

Nonostante i buoni propositi iniziali (Hunt & Taylor eds.1986), nella direzione di un approccio più conservativo alla classificazione dei generi delle Cactacee, lo stesso Hunt (2013, xiii) attratto dalle proposte avanzate da Schlumpberger (2012, 28: 29-31), ed inizialmente accettate dal NCL “team” (2012, 26: 7-8; 2012, 28: 3-4), proposte da noi confutate sulla base di una corretta interpretazione delle evidenze molecolari e del concetto di parafilia sensu Hennig (Anceschi & Magli 2013a, 2013b); nel tentativo di risolvere il problema della polifilia in Echinopsis s.l. ha rispolverato, nelle sue parole, gli “old favorites” (e ora parafiletici) Echinopsis, Lobivia e Trichocereus, insieme ai generi proposti da Schlumpberger. Accettando però questi secondi taxa come nomi “alternativi”. Conscio infatti della labilità filogenetica da noi sottolineata nella soluzione di Schlumpberger (Hunt 2014, 32: 3), l’ultimo Hunt ha proposto nei suoi lavori (2013, xiii; 2016, 11-12), taxa identificabili con più di un nome. Ad esempio Echinopsis walteri [SO] (2016, 52), può assumere indifferentemente anche la veste di Soehrensia walteri Echinopsis walteri (ibidem, 126). Nelle ultime pubblicazioni dell’autore (2013, 2016) sono ben 9 i generi delle Trichocereeae/Trichocereinae (cioè Acanthocalycium, Chamaecereus, Leucostele, Lobivia, Reicheocactus, Setiechinopsis, Soehrensia, Trichocereus, Vatricania), che vivono in questa a dir poco strana realtà, dove condividono un identità sospesa tra Echinopsis e il nome generico proposto da Schlumpberger. In accordo con Hennig (1966, 4) “… it is not basically a scientific task to combine several systems so created, because one and the same object cannot be presented and understood at the same time in its position as a member of different totalities.”.

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VII. Un’ unica direzione: metodo induttivo e divisione

Come evidenziato nella nostra synopsis su Parodia s.l. (Anceschi & Magli 2018, 36: 75), recenti analisi molecolari, in uno degli studi più completi di biologia molecolare sulla famiglia Cactaceae sinora apparsi, Bárcenas et al. (2011), hanno chiaramente evidenziato il fatto che a livello molecolare molti generi attualmente riconosciuti non sono monofiletici (cioè non sufficientemente estesi e non supportati da un numero sufficiente di sinapomorfie). Pur sottolineando questa evidenza, gli autori per ovviare a quello che dal loro punto di vista rappresenta essere un problema, (vale a dire il non essere allineati con la comprensione dei generi delle Cactacee come interpretata dalla corrente sistematica cioè Anderson (2001), Hunt et al. (2006), Anderson & Eggli (2011), Hunt (2013, 2016), propongono la seguente soluzione: “ However, although many genera are not monophyletic, many of these follow a pattern of a monophyletic core, with one or two outliers suggesting relatively robust groups with ‘fuzzy edges‘ so that in several cases small adjustments to classifications (i. e. moving outside of the genus) may produce monophyletic groups without significant nomenclatural changes.” (Bárcenas et al. 2011: 488). Come abbiamo evidenziato (Anceschi & Magli 2018, 36: 75), non possiamo concordare con questo modo di fare scienza (cioè continuando a mistificare i risultati delle analisi). Analoghe interpretazioni dei risultati molecolari vengono fornite da Franco et al. (2017), per mantenere separati i generi Cipocereus F. Ritter e Praecereus Buxbaum, nonostante le analisi dimostrino chiaramente essere entrambi incorporati tra le specie di Cereus, in un singolo clade monofiletico ben supportato, cioè con probabilità a posteriori di 0,93 (> 0,85) (ibidem, 203) (si veda il nostro commento sull'argomento alle pagine 43-44). Dello stesso tipo di propensione alla divisione per la divisione, è affetta buona parte della scienza contemporanea, laddove nei risultati di qualsiasi analisi molecolare e non, per avvicinarsi nelle sue soluzioni a qualcosa di approssimativamente vero in natura, è sempre maggiormente disposta a procedere attraverso metodi induttivi atti a sezionare il reale, mentre mai è disposta alla comprensione di una totalità della stessa realtà attraverso un metodo deduttivo. 

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VIII. Un approccio che viene da lontano

Sarebbe mancanza di retrospettiva storica responsabilizzare solo gli specialisti delle scienze contemporanee per questo tipo di approccio alla verità scientifica, infatti, la predilezione per la divisione nasce molto tempo fa. Non è nostra intenzione svolgere in poche righe la storia del pensiero occidentale nel suo approccio filosofico e scientifico alla realtà che ci circonda, ma proveremo di stilare in estrema sintesi qualche linea guida che ci conduca all’attuale stato delle cose. I Padri della cultura occidentale, filosofica, scientifica, poetica, etica, politica, etc., sono i greci antichi, in particolare, per la vastità delle opere pervenuteci, Platone ed Aristotele. Ci perdoneranno i filologi e gli esegeti classici di tutte le epoche, ma entrambi questi grandi uomini erano sostanzialmente “splitters” nella loro visione del mondo, pur avendo molto ben presente (contrariamente agli scienziati contemporanei), cosa fosse il metodo deduttivo. Platone nel Fedone (Plato, Phaedo 79a), distingueva l’essere in: essere sensibile cioè quello in divenire, visibile, colto dai sensi, costituito dalla pluralità delle cose sensibili, dall’Essere intelligibile, cioè quello che sempre è, invisibile, trascendente il sensibile, colto dall’intelletto, composto questo dalle Idee (ricordiamo che Idea in Platone costituisce una figura di carattere ontologico e metafisico e non gnoseologico come nella filosofia moderna). Sottolineando che anche “le Idee” rappresentavano pur sempre una pluralità, entrambi gli esseri colti da Platone erano quindi dei “molti”. A sua volta Aristotele (Aristotle, Physics V, 1, 225b5 e Metaphysics V, 7, 1017a25), divideva l’essere sensibile in 8 categorie con altrettanti significati (cioè secondo l’essenza o sostanza, la qualità, la quantità, la relazione, l’agire, il patire, il dove e il quando), categorie che diventavano 10 (aggiungendo l’avere e il giacere) nei trattati di logica (Aristotele, Metafisica. Reale, G. 2000, XXII). Altre visioni dell’essere, più integrali ed univoche, dove la realtà è solo come noi la pensiamo con il λόγος (inteso come ragione), o addirittura oltre il pensiero, e non come la sperimentiamo con i sensi, hanno visto come loro “paladini”, Parmenide nel suo Poema sulla Natura (Diels-Kranz 1903-1951, Parmenides 28 A 7, 28 A 8, 28 A 21, 28 A 22, 28 A 24, 28 A 25, 28 A 28, 28 A 34, 28 B 1, 28 B 8) e Plotino (Plotinus, Enneads V, 3, 13, V, 6, 6, VI, 8, 8, VI, 9, 4), i grandi “lumpers” del nostro passato. Nelle rispettive dottrine, questi ultimi due filosofi hanno inteso l’Essere: come un uno, intero, unito, continuo, non divisibile, immobile, ingenerato, imperituro e incorruttibile, il primo. È l’Uno che è Uno, austero, isolato, che non ha rapporti con l’essere, poi attribuito a Parmenide da Platone nel dialogo omonimo (Plato, Parmenides 137c4-142a8). Oppure come un Uno oltre il pensiero, non conoscibile, ineffabile, che non è (apofatico), e quindi non relazionato alle altre parti dell’essere, bensì raggiungibile solo attraverso l’intuizione, il secondo. L’allontanamento dal mondo fenomenico e la negazione dell’esperienza che lo attesta ha fatto si che le ontologie di questi pensatori non risultassero quelle vincenti nella nostra comune comprensione del reale, seppur restino insuperate nell’ambito del pensiero filosofico sull’Essere all’interno dell’umana conoscenza. Come dicevamo, seppur “splitters” nelle loro distinte concezioni dell’Essere/essere, Platone e Aristotele erano consapevoli che nessuna verità scientifica, sia fisica che metafisica, in Aristotele attraverso l’idea del “motore immobile” (che muove senza essere mosso), le due realtà sono continue (Aristotle, Physics II, 7, 198b3-198b9, VIII, 5, 257b22-257b24, VIII, 6, 258b10-258b15, VIII, 10, 267b18-267b25), può essere raggiunta basandosi solamente su ragionamenti e dimostrazioni di tipo induttivo, senza prima averne una comprensione deduttiva basata sull’intuizione dei loro principi. Fondamentale in questo senso, è la comprensione della scienza (dialettica in quel caso), intesa come synopsis, dal greco σύνοψις (cioè visione d’insieme della disciplina trattata), elaborata da Platone nella Repubblica (Plato, Republic VII, 533b-533e, 537b-537c) e nel Sofista (Plato, Sophist 253d1-253e2). Tale visione é ottenuta superando le ipotesi di partenza, fino al raggiungimento del principio che regola la scienza in oggetto, comprensione che permette poi di scendere attraverso un procedimento di divisione (διαίρεσις) ai particolari, per poter successivamente svolgere l’operazione in senso opposto attraverso il metodo (μέϑοδος), ora con la consapevolezza di sapere valutare esattamente le relazioni di prossimità e/o diversità tra i componenti della scala di valori così ottenuta. A nostro giudizio un raro esempio questo, di comprensione a livello teorico “antelitteram”, del metodo scientifico come anche attualmente dovrebbe essere concepito. Chi tra gli epistemologi contemporanei (Gottlieb, P. & Sober, E. 2017(7): 252), tende a ridurre il pensiero scientifico di Platone al solo demiurgo del Timeo, dovrebbe leggere (o rileggere) il Sofista. La fisica Aristotelica, di tipo qualitativo, ha percorso tutta l’antichità, il Medioevo ed il Rinascimento sino ai primi del 1600, dove una nuova generazione di pensatori cioè Descartes, Mersenne, e ovviamente Galileo, hanno “traghettato” la parti della filosofia prima di allora dedicate alle scienze logiche, fisiche e matematiche, alla scienza come attualmente concepita; attraverso uno spostamento di baricentro da un metodo di tipo deduttivo, ad uno puramente induttivo, vale a dire ad una scienza di tipo quantitatvo. Il principio baconiano della “dissectio naturae”, che “è meglio sezionare che astrarre la natura” [melius autem est natura secare, quam abstrahere] (Bacon 1620, libro 1, sezione 51), è esemplificativo del passaggio di comprensione tra le due concezioni del mondo. La dichiarazione del Lord Cancelliere che “without dissecting and anatomizing the world must diligently” non possiamo “found a real model of the world in the understanding, such as it is found to be, not such as man’s reason [cioè l'approccio aristotelico] has distorted” (ibidem, sezione 124, citato da Jammer, M. 1974, 199), divenne uno dei principi guida più importanti e di maggior successo del metodo della scienza moderna. Concordando con Jammer (ibidem), “Descartes’ second “Rule of investigation” (Descartes, R. 1637, Second Part) and Galileo’s “metodo resolutivo” reverberate this maxim, and once it was combined with the appropriate mathematics, as in the hands of Newton, it led science to its greatest achievements. More than any other subject, atomic physics owed its development [con l'eccezione dell'adozione da parte di Bohr di una concezione relazionale e olistica dello stato di un sistema fisico], to a systematic application of Bacon’s “principle of dissection”. “. Sarebbe poco veritiero decantare solo i successi del genere umano, dovuti a questa interpretazione del reale, senza raccontarne anche le ultime sconfitte. Lo stesso approccio che ha portato la fisica, “la più fondamentale” delle nostre scienze, la prima nella scala dei Nobel, ai risultati di cui sopra, (la matematica non è davvero una scienza, se per scienza si intende una disciplina dedicata alla descrizione della natura e delle sue leggi) (Gell-Mann 1994, 107-109), ha anche condotto nelle ultime decadi ai ripetuti fallimenti della Teoria delle Stringhe (Smolin 2006). Dove, nel tentativo di raggiungere una teoria unificante, i teorici delle stringhe sono giunti ad ipotizzare l’esistenza di undici dimensioni attraverso “the eleven-dimensional supermembrane theory”. Nella sintesi dell’autore “… if you take one of the eleven dimensions to be a circle, then you can wrap one dimension of a membrane around that circle. ... This leave the other dimension of the membrane free to move in the remaining nine dimensions of space. This is a one-dimensional object moving in a nine-dimensional space. It looks just like a string! ...This is so pretty that it's hard not to believe in the existence of the eleven-dimensional unifying theory. The only problem left open was to discover it.” [sic!] (ibidem, 135-136). La scienza fisica come concepita dal 1600 in poi, deve predire risultati osservabili, cioè teorie verificabili a livello sperimentale, non teorie “eleganti” quanto indimostrabili. A questo proposito sempre nelle parole di Smolin “In the two string revolutions [1984-1996], observations played almost no rule.” (ibidem 149). Una fisica (meglio astrofisica in questo caso), che attualmente si diletta nella scoperta di “exoplanets” (Peebles, J. Mayor, M. & Queloz, D. Premi Nobel per la Fisica nel 2019), avendo oramai nella pratica solamente a cuore, la costruzione di computers che comunichino sempre più velocemente tra loro. Appare ora molto lontano l’entusiasmo dell’epoca di Richard Feynman (Premio Nobel per la Fisica nel 1965, con Tomonaga, S-I. & Schwinger, J.). Entusiasmo dovuto ai risultati raggiunti in campo fisico anche per merito del suo contributo alla QED (Feynman 1985), allorquando le tecnologie del transistor (1948) e del laser (1950 ca.), entrambe progenie tecnologiche della meccanica quantistica, hanno rivoluzionato la nostra comprensione del mondo, dando luogo alla nascita dell’era dell’informazione, la prima, e alla possibilità dell’enorme aumento del flusso di informazione nelle telecomunicazioni attraverso la luce laser e le fibre ottiche, la seconda (Aspect, A. in Bell, J. S. 2004, XX-XXI). Sopratutto, appaiono ora molto lontani i tempi nei quali lo stesso Feynman si sentiva di poter deridere la filosofia di Spinoza con queste parole “There were all these Attributes, and Substances, all this meaningless chewing around, and we [con suo figlio] started to laugh. Now, how could we do that? Here’s this great Dutch philosopher, and we’re laughing at him. It’s because there was no excuse for it! In that same period there was Newton, there was Harvey studying the circulation of the blood, there were people with methods of analysis by which progress was being made! You can take every one of Spinoza’s propositions, and take the contrary propositions, and look at the world-and you can’t tell which is right.” (Feynman 1999, 195). Il grande fisico proseguiva, deridendo in generale la profondità del ragionamento filosofico “There’s a tendency to pomposity in all this, to make it all deep and profound. … instead, they [i filosofi] seize on the possibility that there may not be any ultimate fundamental particle, and say that you should stop work and ponder with great profundity.” (ibidem), convinto che la fisica che ha preso le mosse da Newton potesse investigare su ogni umana domanda circa la realtà che ci circonda, senza più nessun ausilio da parte della filosofia. Al contrario, oggi siamo consapevoli di essere molto lontani dal raggiungimento di “a unique theory of nature” [cioè, una unica teoria che dia previsioni uniche per gli esperimenti], vagheggiata dall’ultima fisica (Smolin 2006, 159), come siamo altrettanto consapevoli di non poter includere la coscienza umana tra i dati del mondo macroscopico (cioè l’apparato di misurazione), per una maggiore completezza della misurazione quantistica (Bell 2004, 25-27). Noi continueremo ad amare il pensiero brillante (e profondo), indipendentemente dal fatto che ne sia portatore un filosofo piuttosto che un fisico. In questo senso, l’intelligenza è cosa talmente rara che non ci possiamo permettere di discriminare quando l’incontriamo, ed anche in questo caso siamo sempre attenti a cogliere i collegamenti piuttosto che le divisioni, certi che i componenti della realtà che ci circonda, materiali ed immateriali (come l’intelligenza appunto), siano collegati tra loro, piuttosto che separati. D’altronde non sarebbe esistita la filosofia di Aristotele se questa non si fosse nutrita per venti anni (367/366 a. C. - 347 a. C.) all’Accademia platonica, o prima ancora quella di Platone, se questi non avesse potuto apprendere dalle dottrine di Eraclito, Pitagora, Parmenide, Socrate (suo maestro dal 408-407 a. C. al 399 a. C.) e Anassagora. Come d’altronde non sarebbero esistite le 9 sinfonie di Beethoven se non fossero state precedute dalle 41 di Mozart e sopratutto dalle 104 di Haydn, quest’ultimo alla fine del settecento, a Vienna, maestro e ispiratore di entrambi etc..

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IX. Ritorno alla scienza tassonomica. Il “limite” della vista.

Contando che la la nostra breve storia sia stata di una qualche utilità per la comprensione del perché nel background della mente umana, procedimento induttivo e divisione risultino ora più comprensibili rispetto a procedimento deduttivo ed assimilazione, vorremmo tornare con alcuni brevi cenni alla scienza della quale ci occupiamo in questo testo, la tassonomia, nello specifico in relazione alla famiglia Cactaceae. Dicevamo sopra, che le evidenze di un sempre maggior numero di analisi molecolari (Nyffeler & Eggli 2010; Bárcenas et al. 2011; Schlumpberger & Renner 2012), dimostrano chiaramente che la più parte dei generi delle Cactacee come attualmente concepiti vedi Anderson (2001), Hunt et al. (2006), Anderson & Eggli (2011), Hunt (2013, 2016), semplicemente non esistono, e che alle differenze colte dall’occhio umano a livello morfologico ed ancora utilizzate nella loro distinzione, non corrispondono differenze a livello genetico (Nyffeler & Eggli 2010). Nonostante queste evidenze a livello generico, ad un livello più basso della scala genetica, cioè a livello specifico, un mondo di ricercatori è all’opera per cercare “markers” sempre più variabili che possano in qualche modo giustificare differenze tra i taxa (Shaw et al. 2007; Franck et al. 2012; etc). Ora quel che appare paradossale, è che analisi molecolari al livello specifico possano supportare differenze tra taxa, già confutate per gli stessi ad un gradino più alto della scala, i.e quello generico. È il caso delle la variazione di sequenza rivelata tra due specie strettamente imparentate di Harrisia dalla regione caraibica (H. earlei e H. fragrans Small ex Britton & Rose), evidenziate da Franck, A.R. et al. (2012, e406), attraverso l’uso di tre “markers” di nuova caratterizzazione (isi1, nhx1 e ycf1), per la loro possibile applicazione ai livelli tassonomici inferiori, all’interno di un genere, Harrisia Britton appunto, non distinto a livello genetico da Echinopsis Zuccarini secondo le ultime prove molecolari (Schlumpberger & Renner 2012, 1336, 1341). Ora, all’interno dello stesso sistema di riferimento ciò che è particolare non può negare ciò che e più generale, pena la credibilità del sistema stesso. Sottolineiamo inoltre che non sempre ad una qualsiasi differenza corrisponde una reale diversità (genetica in questo caso). A questo proposito, esiste a nostro giudizio una notevole disparità di approccio per esempio, rispetto a cosa botanici e zoologi della nostra epoca riconoscano come specie e sottospecie all’interno dei loro sistemi tassonomici, e quelle che sono le relazioni genetiche attualmente riconosciute tra le popolazioni che compongono Homo sapiens Linneo. Utilizzando i paradigmi usati da questi specialisti, probabilmente i Lapponi (Sami) del Nord-Europa, i Masai che vivono tra Kenya e Tanzania, i Pigmei (BaMbuti, Baka, Batwa) dell’Africa equatoriale, etc., sarebbero tutti riconosciuti come specie distinte all’interno del genere umano, ma sappiamo bene che a livello genetico le cose non stanno in questi termini. Evidenziamo che, l’elenco delle popolazioni umane che manifestano tra loro differenze morfologiche ben maggiori a quelle che dividono molte specie e generi delle Cactacee potrebbe essere molto lunga. Anche in questo caso, la predilezione del senso della vista per discriminare gli oggetti del reale viene da lontano. Aristotele inizia la Metafisica (Aristotle, Metaphysics I, 980a), sottolineando che gli uomini tra tutte le sensazioni prediligono il vedere, in quanto è la vista che cogliendo numerose differenze tra le cose, ci fa conoscere più delle altre sensazioni. Da quell’epoca le cose non sono molto cambiate. Scorrendo i documenti sulla conservazione biologica, è interessante per esempio notare che, nonostante diverse filogenie di Ursidae, basate sul DNA mitocondriale e nucleare, suggeriscono sempre più che gli orsi polari (Ursus maritimus) e gli orsi bruni (Ursus arctos) non sono reciprocamente monofiletici (Talbot and Shields, 1996a, 1996b; Waits et al., 1999, citato da W. R. Morrison III et al. 2009, 142: 3204), ciononostante, dopo una revisione durata 3 anni, l'USFWS ha emesso la sua sentenza definitiva nel 2008 in cui l'orso polare è una specie minacciata (Schliebe e Johnson, 2008, ibidem), dove nessun giudizio di minaccia è stato espresso per U. arctos. E ancora nella stessa direzione, nel 1999, uno studio molecolare non ha indicato alcuna distinzione significativa tra la tartaruga verde (Chelonia mydas) e la tartaruga nera (Chelonia agassizii; Karl and Bowen, 1999), e di conseguenza Chelonia mydas e C. agassizii sono ora trattate come un'unica specie (NMFS e USFWS, 2007). Tuttavia, un programma di monitoraggio per la tartaruga verde è stato avviato in Mozambico nel 2004 dalla WWF Homeland Foundation-USA e rappresenta un investimento di $ 210.000 USD (www.wwf.org.mz). (citato da W. R. Morrison III et al. 2009, 142: 3204). Ora non è nostra intenzione il volere cancellare distinzioni che in qualche modo possono salvare parti di popolazioni biologiche, come già sottolineato (Anceschi & Magli 2020, 38 Special Issue: 7), “… we should not only make an effort to protect living things solely because of their IUCN conservation status, but we should respect the habitats of all taxa. Today’s dominant species may be tomorrow’s endangered species. “. Quello che ci interessa qui mettere in rilievo, è che noi distinguiamo e continueremo a distinguere la realtà sensibile che ci circonda, prediligendo la nostra esperienza visiva, indipendentemente da quello che ci evidenziano gli ultimi strumenti della contemporaneità disponibili. Spesso nel corso dei nostri viaggi di studio, solcando gli ecosistemi più aridi e semi-aridi del pianeta come l’Atacama Cileno, il deserto costiero del Perù e il “Monte Desert” Argentino (Rundel et al. 1991; Rundel et al. 2007), ci siamo resi conto che spesso le specie che abitano questi habitat così estremi, non sono particolarmente interessate a mantenere un’identità attraverso barriere riproduttive, piuttosto a sopravvivere con ogni mezzo, anche proprio incrociandosi tra loro. I tanti ibridi infragenerici all’interno delle Trichocereeae/Trichocereinae ne sono un esempio eclatante. In questo senso, le specie sono definibili come processi biologici i cui scopi sono, Darwinianamente parlando, l’adattamento e la sopravvivenza, o più filosoficamente, continuare ad essere, trasformandosi tra loro nello spazio e nel tempo, non il mantenimento di una identità. La riproduzione e l’incrocio fungono solo a questo scopo, continuare ad esistere o ad essere. Le popolazioni di piante per interagire tra loro non si vedono, si sentono, ed il voler distinguere filogenie sulla base di criteri morfologici colti attraverso la nostra vista, è un atteggiamento tipicamente umano. Su uno spazio tempo abbastanza dilatato, parlare di specie nel senso comunemente attribuito al termine, appare abbastanza privo di significato.

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X. Una tassonomia che consideri un approccio più universale al reale: un possibile strumento per una migliore comprensione del mondo

Ogni scienza umana possiede una specifica tassonomia per identificare e trattare i principi, le dimostrazioni e i risultati, in una parola gli oggetti della propria ricerca. In questo senso ci piace vedere la scienza tassonomica come uno strumento che, come per altri versi la matematica nelle scienze fisiche, può aiutarci nella definizione di una migliore e probabilmente più realistica comprensione del mondo che ci circonda. Sulla base della tassonomia adottata, si può cambiare la nostra percezione e valutazione del mondo, non solo a livello squisitamente tassonomico, ma anche a livello filosofico, scientifico ed etico. Secondo Sober (2000, 212-213) “It is not implausible to think that many of our current ethical beliefs are confused. I am inclined to think that morality is one of the last frontiers that human knowledge can aspire to cross. Even harder than the problem of understanding the secrets of the atom, of cosmology and of genetics is the question of how we ought to lead our lives. This question is harder for us to come to grips with because it is clouded with self-deception: We have a powerful interest in not staring moral issue squarely in the face. No wonder it is taken humanity so long to traverse so modest a distance. Moral beliefs generated by superstition and prejudice probably are untrue. Moral beliefs with this sort of pedigree deserve to be undermined by genetic arguments”. Riteniamo infatti che molto spesso inutili distinzioni miranti a tenere separate parti della stessa realtà, derivino da un nostro pregiudizio nei confronti delle cose, atto a creare distinzioni nocive nella nostra comprensione etica del mondo. Proprio sulla base dei “genetic arguments” invocati dall’autore, dovremmo ad esempio prendere atto in modo definitivo, che se esistono distinzioni all’interno di H. sapiens non sono certamente al livello genetico (semmai a livello individuale, ma non è questa la sede per questo approfondimento), e che una più corretta comprensione del resto del vivente che ci circonda, nella stessa direzione, cioè evitando una ridondanza che crea solo inutili nomi, ci aiuterebbe probabilmente ad avere un maggiore senso di empatia nei confronti degli altri viventi del pianeta. L’approccio mentale del dividere per dividere, senza mai avere nessuna visione d’assieme del tutto (synopsis), serve a creare sempre nuove, inutili barriere, non ad abbatterle per una nuova comprensione etica del mondo.

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XI. La vera scienza si basa sull’intuizione dei principi, non su metodi induttivi, probabilità supportate da “solide” quantità matematiche, opinione e relativo consenso 

Criticare l’approccio alla conoscenza della scienza contemporanea non è cosa difficile, più complesso è forse il tentare di tracciare qualche direttrice nel tentativo di dare nuovo impulso al nostro pensiero scientifico. Seguendo Aristotele (Aristote, Du Ciel, II, 12, 291b24-291b28), riteniamo che meriti di venire qualificata come modestia, più che come audacia, l’ardore di chi, assetato dal desiderio di sapere, è felice di fornire chiarimenti, per quanto limitati, sugli argomenti a proposito dei quali ci si imbatte nelle maggiori difficoltà. Noi sosteniamo che la scienza, quella vera, si fonda sull’intuizione dei principi non su metodi induttivi, probabilità, “solide” quantità matematiche, opinione e relativo consenso, paradigmi molto cari all’epistemologia contemporanea. Come già ampiamente discusso sopra, procedere solamente attraverso induzione, metodo per sua natura frammentario e limitato, in quanto non atto a cogliere la totalità o visione d’assieme (synopsis) della scienza in esame, non può che portarci: a) ad avere solo mere opinioni sugli oggetti che compongono la realtà sensibile che ci circonda. Ricordiamo infatti che l’opinione (δόξα), se non sostenuta dalla cognizione della causa, è fallace per sua natura. Di conseguenza, b) perché le nostre dimostrazioni possano giungere a risultati veritieri, dobbiamo conoscerne le cause, ovvero i principi. Ora, la scienza contemporanea sostanzia le sue opinioni attraverso la valutazione di probabilità di ipotesi in competizione utilizzando “likelihood models”, ma sappiamo bene che le probabilità non hanno nulla a che vedere con la verità, in quanto, citando Sober (2000, 64-65) “One might take the view that probability talk is always simply a way to describe our ignorance; it describes the degree of belief we have in the face of incomplete information. According to this idea, we talk about what probably will happen only because we do not have enough information to predict what certainly will occur.” In sintonia con Aristotele (Aristotle, Posterior Analytics, II, 19, 100 b), vero è che i principi sono indimostrabili, ma altrettante vero è che possono essere colti intuitivamente, cioè attraverso il nostro intelletto (νοῦς) e la sua azione, l’intellezione, o, per separare chiaramente tale processo dalla conoscenza scientifica fondata sul ragionamento (διάνοια), dall’intuizione (ibidem). Per chi preferisse utilizzare il latino mens (mente), anziché il termine greco νοῦς (intelletto), quest’ultimo identificante spesso nella cultura greca classica la parte più alta dell’anima razionale, l’opzione è possibile. Porteremo ora come testimoni a sostegno della nostra tesi, cioè che la conoscenza dei principi, ontologica in generale e scientifica in particolare, si basa sull’intuizione: I) Aristotele (filosofo), II) Albert Einstein (fisico) e III) Willi Hennig (biologo, entomologo).

I) In accordo con Barnes (Barnes, J. in Mignucci, M. 2007, IX, XI, XIII), Aristotele nelle sue due maggiori opere di logica (Analitici primi e secondi), divide le verità che costituiscono la scienza in due gruppi: quelle dimostrate e quelle che non lo sono. Il termine correntemente usato dal filosofo per le seconde è “principio” (ἀρχή), cioè gli assiomi della filosofia contemporanea, mentre usa per le prime, senza maggiore specificazione “cosa dimostrata”, cioè ciò che i filosofi contemporanei chiamano “teoremi”. In termini attuali, nello schema logico Aristotelico, i teoremi sono dimostrati attraverso sillogismi (dimostrazioni logiche) a partire da assiomi. In quanto primari o primitivi (cioè non c’è nulla ad essi anteriore), e necessarie premesse delle dimostrazioni, i principi non possono essere colti dimostrativamente bensì attraverso il νοῦς, termine tradotto con “intuizione” nella prima interpretazione di Mignucci (1970, 131-132), mentre con ”intellezione” nella seconda (Mignucci 2007, 141). Come sopra indicato preferiamo la prima traduzione dell’autore. Nel già citato capitolo a chiusura degli Analitici Secondi, il trattato dedicato alla conoscenza non dimostrativa dei principi (è negli Analitici Primi che il Filosofo si occupa della logica delle dimostrazioni, attraverso il sillogismo scientifico), a nostro giudizio in una delle pagine più illuminanti nella la storia del sapere umano, Aristotele (Aristotle, Posterior Analytics II, 19, 100 b), inizia dicendo che degli stati intellettuali coi quali cogliamo la verità, alcuni sono sempre veri, mentre altri ammettono il falso. I primi sono la conoscenza scientifica e l’intuizione, i secondi sono l’opinione e il calcolo o ragionamento [salta subito all’occhio che proprio i secondi siano quelli preposti dall’attuale metodologia scientifica ad attestare la veridicità della nostra conoscenza]. Il Filosofo sottolinea che tra i primi due, l’intuizione è ancora più esatta della conoscenza scientifica. In rapida successione afferma poi, che i principi sono più noti delle dimostrazioni [in quanto ne sono le necessarie premesse], e che poiché ogni conoscenza scientifica si costituisce argomentativamente, non vi può essere conoscenza scientifica dei principi [in quanto colti intuitivamente attraverso il νοῦς, non attraverso il ragionamento, applicato invece nella successiva dimostrazione]. Visto che non esiste nulla di più vero della conoscenza scientifica tranne che l’intuizione, l’intuizione deve avere per oggetto proprio i principi. Risultato che discende anche dal fatto che come il principio della dimostrazione non è una dimostrazione, conseguentemente principio della conoscenza scientifica non può essere la conoscenza scientifica. Constatato che non abbiamo nessun altro genere di conoscenza vera oltre alla scienza [se non l’intuizione], l’intuizione sarà principio della scienza. Aristotele conclude affermando che l’intuizione allora può essere considerata principio del principio, mentre la scienza nel suo complesso sta nello stesso rapporto con la totalità delle cose che ha per oggetto. Nel finale il nostro Filosofo istituisce questa brillante proporzione:

l’intuizione : al principio = la conoscenza scientifica : agli oggetti di ricerca delle distinte scienze 

II) A qualche secolo di distanza Albert Einstein (1936) si esprime contro il metodo induttivo nella scienza, sostituendo al concetto di “intuizione” quello di “libera invenzione”, sostenendo che la fisica costituisce un sistema logico di pensiero in evoluzione, le cui basi non si possono ottenere per distillazione delle esperienze vissute mediante un qualsiasi metodo induttivo, ma esclusivamente attraverso la libera invenzione.

III) Vogliamo sostanziare infine la nostra opinione circa la fondamentale importanza dell’intuizione in scienza, con un brano già evidenziato nel nostro precedente booklet (Anceschi & Magli 2013, 16), nell’espressione di Willi Hennig, l’uomo che più di ogni altro ha tentato di dare un volto moderno, cioè scientifico, alla scienza tassonomica. Secondo l’opinione di Hennig infatti: “... there is no simple and absolutely dependable criterion for deciding whether corresponding characters in different species are based on synapomophy. Rather it is a very complex process of conclusions by which in each individual case, ‘synapomorphy’ is shown to be the most probable assumption” (1966, 128). Inoltre “... the attempt to reconstruct the phylogeny, and thereby the phylogenetic relationships of species, from the present conditions of individual characters and the presumed preconditions of these characters has the nature of an integration problem. In mathematics, the most exact science, according to Michaelis (1927), ‘integration... is an art... since one is often faced with the problem of combining, from the numerous possible manipulations, those that make possible the solution of the problem.” (ibid., 128-129). Hennig aggiunge che la soluzione a un particolare problema dipende da capacità che non si trovano nel regno dell'apprendibile (ciò che noi chiameremmo intuizione), citando le parole del matematico Gauss: “I have the result, but I don’t know yet how I got it” (ibid., 129).

Riepilogando, nel tentativo di formulare una proposta che possa preparare ad un nuovo metodo d’approccio alla conoscenza scientifica, diremmo che un ritorno ad una modalità di procedere che prediliga il pensiero teoretico-speculativo come base per la comprensione del reale (tale pensiero ne è parte), aiuterebbe a preparare ricercatori che sappiano interpretare attraverso il ragionamento il visibile, ed attraverso l’intuizione l’invisibile. A questo scopo una rilettura dei Classici della filosofia occidentale, anche da parte degli scienziati, fisici inclusi, sarebbe un buon punto di partenza. Nel recente articolo “Why science needs philosophy” (Laplane et al. 2019), gli autori riportano tutti i benefici derivanti da un approccio scientifico che compendi una base filosofica, anche perché diremmo noi, è dai tempi di Talete (n. ca. 624 o 623 a. C. - m. tra il 548 e il 545 a. C.), che sappiamo essere la prima che nasce come parte della seconda, non viceversa. L’articolo di cui sopra (ibidem, 3948), si apre ancora una volta con le illuminanti parole di Albert Einstein: “A knowledge of the historic and philosophical background gives that kind of independence from prejudices of his generation from which most scientists are suffering. This independence created by philosophical insight is—in my opinion—the mark of distinction between a mere artisan or specialist and a real seeker after truth.” (1944, Lettera a Robert Thornton). Se la comunità scientifica contemporanea vuole scongiurare il rischio che le Accademie diventino solamente il ricettacolo di una forma di sapere specialistico ed autoreferenziale, queste devono tornare ad essere ciò per cui nacque l’idea Platonica di Accademia cioè un luogo dove i saperi possano incontrarsi, non dividersi. (Tradotto da: Anceschi & Magli 2021, 15-35)

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Tassonomia (parte II)

In vista di un approccio più tradizionale alla classificazione dei generi e delle specie delle cactacee

Tempo, realtà, individualità

Nelle conclusioni del precedente testo, dedicato all’aspetto tassonomico dei nostri studi (Anceschi & Magli 2010, 19), avevamo sottolineato che l’uso di criteri filogenetici per raggiungere una classificazione genealogica in accordo con Darwin, o naturale in accordo con Hennig, espressa attraverso il sistema gerarchico linneano, è una delle possibili interpretazioni (quella usata dalla scienza attuale) per classificare gli esseri viventi. La ragione per la quale una classificazione filogenetica è preferibile ad altre (morfologiche, tipologiche, etc.) è che gli esseri viventi si trasformano nel tempo, hanno un inizio e una fine, e in questo senso si manifestano come processi reali, dotati di individualità. Una classificazione che non consideri questo aspetto, non si pone come oggetto di studio fenomeni reali, bensì proiezioni artificiali. L’idea è così espressa da N. Hartmann :” The true characteristics of reality are not dependent on the categories of space and matter, but of those of time and individuality. And temporality is inseparably connected with individuality. It consists in nothing else but the onceness and the singleness” (Hartmann 1942, citato da Hennig 1966, 81). Per realtà Hartmann intende “the mode of existence of everything that has a place or a duration in time, its origins and its cessation” (ibid.). Quindi le entità (individui, popolazioni, specie) misurate con criteri filogenetici, sono entità concrete e reali, con un inizio nel tempo, che si contrappongono a quelle astratte e senza tempo, la cui distinzione è basata su altri parametri. Nelle ultime pagine di Philogenetic Systematics, Hennig (1966, 238-239) sottolinea l’importanza in filogenesi di una esatta cronologia dei reali eventi storici, per distinguere i gruppi monofiletici da quelli parafiletici, e che termini come realtà, individualità, origine, differenziazione ed estinzione hanno significati diversi per i distinti gruppi. La corretta interpretazione della direzione nella freccia del tempo è quindi elemento fondamentale per stabilire la realtà e la corretta valutazione dei legami che uniscono tutti gli appartenenti a una linea evolutiva proveniente da uno stesso ancestro, o gruppo monofiletico.

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Taxa superiori: metodi e tecniche di definizione

Molti autori considerano che solo gli individui e le specie siano entità reali, dove invece le altre categorie tassonomiche (dal genere in su) siano mere astrazioni. Per Plate per esempio le specie occupano “a position distinct from the genus, family, etc. In that it exists in nature as an actual ‘complex of individuals’ indipendent of human analysis, and therefore as an objective entity. The members of a species recognize each other and reproduce together, whereas the higher groups of individuals (genus, family, etc.), are not formed through themselves, but by the comparing and reflecting mind of man. In this sense the species is real, whereas the genus, family, and other higher groups are abstractions”. (Plate 1914, in Uhlmann 1923, citato da Hennig 1966, 78). Come già evidenziato in Tassonomia (Anceschi & Magli 2010, 9), l’unico taxon superiore del quale ci occupiamo nel nostro sistema di classificazione delle cactacee (oltre alla famiglia) è il genere, ritenendo non necessari i ranghi infra-generici (sottogeneri e gruppi) (ibid., 13, 18) e supra-generici (sottotribù, tribù e sottofamiglie). Per la definizione dei taxa superiori e dei rapporti tra questi, l’attuale biologia sistematica utilizza:

a) Le teorie di filogenetica sistematica di Hennig (1966) e dei suoi successori Wiley (1981); Wiley & Liebermann (2011).

b) L’enorme ammontare di informazioni comparate provenienti dalle investigazioni molecolari (cioè i dati delle sequenze del DNA da diversi genomi).

c) Software in grado di trattare grandi moli di informazioni in analisi numeriche complesse.

d) Modelli di probabilità sull’evoluzione delle sequenze dei DNA analizzati e test statistici, per esplorare e valutare le probabilità di ipotesi filogenetiche in competizione.

Attualmente il lavoro più importante riguardo la classificazione dei taxa superiori nelle cactacee è quello di Nyffeler e Eggli (2010, 6: 109-149).

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L’interpretazione della freccia del tempo nei metodi per la definizione dei taxa superiori. Il riconoscimento dei gruppi monofiletici attraverso il sistema basato su simplesiomorfia / sinapomorfia

Come già evidenziato, una esatta cronologia dei reali eventi storici, è ciò che distingue i gruppi monofiletici dagli altri gruppi non naturali. Nella teoria della sistematica filogenetica cladista (Hennig 1950, 1966; Wiley 1981; Wiley & Liebermann 2011), il tempo nel quale ha avuto origine il processo di trasformazione, che ha portato alle specie (e generi) attuali, nasce con la stem species, il primo ancestro del gruppo analizzato. La dimensione del tempo nel corso del processo, è scandita dai momenti di scissione che nel corso della serie di trasformazioni, portano dalla stem species ai taxa attuali. Gli ancestri delle specie attuali sono estinti, non solo il primo, ma anche quelli che rappresentano i successivi punti di scissione nel processo di trasformazione. L’unico collegamento possibile basato su un tempo reale (anche se passato) sarebbe costituito dalla ricostruzione dei passaggi, attraverso gli strumenti della paleontologia, ma per la famiglia Cactaceae A. L. de Jussieu, non esistono reperti fossili di rilievo. Gli strumenti messi a disposizione dalla scuola cladista per riconoscere i gruppi monofiletici, cioè quelli che “... are subordinated to one another according to the temporal distance between their origins and the present; the sequence of subordination corresponds to the ‘recency of common ancesty’ of the species making up each of the monophyletic groups.” (Hennig 1966, 83), sono i caratteri che Hennig identifica come sinapomorfie. Egli considera i caratteri portati dal primo ancestro (stem species) plesiomorfi, quelli derivati nel corso del processo di trasformazioni, e fissati su ancestri successivi (a loro volta estinti) apomorfi. Nelle specie attuali, i caratteri direttamente ereditati dal primo ancestro (plesiomorfi) vengono definiti simplesiomorfia, mentre i caratteri derivati da ancestri più recenti (apomorfi), anche se non necessariamente i più recenti, sono definiti sinapomorfia (ibid., 89). Chiamiamo quindi sinapomorfie una particolare categoria di caratteri, cioè quelli che distinguono un gruppo monofiletico, in quanto ereditati da tutti gli appartenenti al gruppo, o clade, da un recente ancestro comune. È fondamentale nell’identificazione di questi caratteri la distinzione di quelli genuinamente sinapomorfi da:

a) Quelli simplesiomorfi, che come i primi rappresentano tipi di caratteri omologhi, cioè ereditati da una stessa stem species.

b) Quelli dovuti a convergenza evolutiva o parallelismo (caratteri analoghi), cioè o morfologicamente simili in distinte specie, ma non derivanti da un ancestro comune (dovuti a convergenza), o caratteri simili, assenti nella stem species di un gruppo monofiletico, e sviluppatisi indipendentemente nelle specie successive (parallelismo) (ibid., 117).

La sistematica filogenetica parte quindi dalla convinzione che tutte le corrispondenze e le differenze tra le specie e i gruppi di specie nel corso della filogenia, nascano da una alterazione di caratteri di una comune stem species (ibid., 128).

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L’interpretazione delle sinapomorfie: un problema di carattere intuitivo

Per stessa ammissione di Hennig: “... there is no simple and absolutely dependable criterion for deciding whether corresponding characters in different species are based on synapomorphy. Rather it is a very complex process of conclusions by whitch in each individual case, ‘synapomorphy’ is shown to be the most probable assumpion”(ibid., 128). E ancora: “... the attempt to reconstruct the phylogeny, and thereby the phylogenetic relationships of species, from the present conditions of individual characters and the presumed preconditions of these characters has the nature of an integration problem. In mathematics, the most exact science, according to Michaelis (1927), ‘integration... is an art... since one is often faced with the problem of combining, from the numerous possible manipulations, those that make possible the solution of the problem.” (ibid., 128-129). La “manipolazione” messa a disposizione dall’autore per la distinzione dei gruppi monofiletici tra i taxa superiori, è appunto quella basata sul sistema di simplesiomorfie e sinapomorfie. Hennig aggiunge che la soluzione a un particolare problema dipende da capacità che non sempre stanno nel regno del conoscibile (noi le chiameremmo intuizioni), citando la frase del matematico Gauss: “I have the result, but I don’t know yet how I got it” (ibid., 129). Posizioni analoghe sono ribadite da Wiley & Liebermann (2011, 122-123), che riportando Hennig, sottolineano come il principio alla base della filogenetica empirica, è costituito dal fatto che scoprire omologie è una ipotesi osservativa, non un fatto, perché non ci sono metodi esatti per osservare omologie reali come esistono in natura. E aggiungono: “... the assertion that two or more organisms share a homology or the assrtion that a particular synapomorphy is a character property of a particular monophyletic group are both probabilistic conjectures (Patterson, 1982; Haszprunar, 1998; Sober, 2000) whose veracities are always open to further testing as opposed to deductive conclusions (e. g., Rieppel, 1980).” (Wiley & Liebermann 2011, 123). Sulla base dei caratteri scelti per identificare i gruppi, Hennig definisce monofiletici quelli cui la similarità è basata su sinapomorfie, parafiletici quelli nei quali la similarità è basata su simplesiomorfie, polifiletici se la similarità è dovuta a convergenza (1966, 146). Il sistema basato su simplesiomorfia / sinapomorfia messo a disposizione dall’autore per distinguere i gruppi monofiletici nello studio filognetico dei taxa superiori, risulta in molti casi indispensabile, in quanto permette una possibile interpretazione della storia evolutiva di gruppi di taxa, anche in assenza di reperti fossili (come nel caso della famiglia Cactaceae), ma anche di difficile e varia interpretazione. Spesso, analisi cladistiche basate su caratteri morfologici (Taylor & Zappi 1989), o molecolari, sono state usate a nostro parere in modo forzoso e con dubbi risultati. Infatti non è sempre possibile l’applicazione di un sistema pensato per i taxa superiori (in Hennig 1966, principalmente famiglie, sottordini, ordini, sottoclassi, classi), per l’analisi di gruppi infra-generici, generi o tribù. Cioè gruppi costituiti da poche specie che da sole, e a volte per ammissione degli stessi autori (ibid., 14, 29, 39), non possono mostrare ne’ la quantità dei caratteri, ne’ la qualità degli stessi, per poter essere interpretati some ancestrali o derivati, e quindi poter trarre conclusioni filogenetiche attendibili sui taxa analizzati. Un principio che lo stesso Hennig sintetizza così: “For phylogenetic systematics this means that the reliability of its results increases with the number of individual characters that can be fitted into trasfomation series” (ibid, 132). Sui caratteri utilizzati nella classificazione dei generi e delle specie nelle cactacee abbiamo già discusso nel primo testo dedicato alla tassonomia (Anceschi & Magli 2010, 14-18), chiedendoci se l’attuale preferenza data ai risultati molecolari sia corretta. A questo proposito abbiamo sottolineato che il dato molecolare non può essere considerato il dato in assoluto, ma che va valutato in un rapporto di relazioni con tutti gli altri dati ricavati dai caratteri che costituiscono l’olomorfologia di un taxon. Analogamente Wiley & Liebermann (2011, 121), fanno notare che le sinapomorfie del comportamento non hanno meno valore in sistematica rispetto a omologie morfologiche e che (citando McLennann et al. 1988), fenomeni di omoplasia (convergenza) non necessariamente sono più presenti nei caratteri comportamentali che in quelli morfologici, per poi sottolineare: “Similarly, in this view, morphological homologies are no less suited for phylogenetic analysis than DNA sequence homologies. The idea that one kind of data is inherently better than other kinds of data is not viable under this concept, and hypotheses of homology from whatever source can and should be allowed to complete on an even playing field as potential evolutionary innovations (e. g., discussion in Hillis, 1987).” (Wiley & Liebermann 2011, 121).

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L’interpretazione della freccia del tempo nei risultati delle analisi molecolari

Anche se Hennig (1966, 104-107) non trovava di particolare utilità i metodi basati su analisi chimiche o molecolari in sistematica filogenetica, è indubbio che i caratteri molecolari esistano, che sono di grande importanza, che si manifestino in quelli che Hennig chiama “caratteri olomorfologici” (ibid., 32), e che possano essere utilizzati nel sistema basato su simplesiomorfie / sinapomorfie. In che modo si ricostruisce l’esatta cronologia dei reali eventi storici nei dati molecolari? Le sequenze di nucleotidi che possiamo analizzare (dopo PCR, elettroforesi, allineamento delle sequenze) sono una fotografia del DNA attuale, e analogamente le specie che possiamo osservare sono solo quelle attuali. In entrambi i casi l’elemento ancestrale non esiste più; si identificano quindi alcuni caratteri molecolari come ancestrali e altri come derivati. Per esempio, nello studio già citato di Nyffeler & Eggli (2010), nella parte che riguarda la tribù Notocacteae, la delazione di 23 nucleotidi evidenziata nei rappresentanti di Parodia s.l., viene ritenuto un carattere derivato (sinapomorfia), e la presenza degli stessi negli altri due gruppi in esame, un carattere primitivo (simplesiomorfia). Del fatto che la sistematica molecolare (sequenze del DNA), per inferire relazioni, eviti quasi completamente similarità dovute a evoluzione parallela, perché i caratteri molecolari non sarebbero soggetti alle stesse forze esterne alle quali è soggetto il fenotipo (Wallace 1995, 13: 2), non siamo completamente convinti. Pensiamo infatti che i geni facciano parte dell’hardware di un essere vivente, come ogni altra sostanza biochimica, e che ricevano istruzioni dal resto della cellula non meno di quante ne diano. L’idea di un DNA immutabile non è realistica, e le ultime frontiere aperte dall’epigenetica sembrano mostrare un panorama un po’ più complesso. A questo proposito Nyffeler & Eggli osservano: “It is generally assumed that DNA sequences, in particular of ‘non-coding‘ regions of the genome, are not affected by evolutionary processess interfering with the phenotype of the individual organisms. However, there are also molecular evolutionary phenomena currently not yet well understood that may cast dust onto the preserved historical signal” (2010). Abbiamo visto che attraverso il sistema basato su simplesiomorfie / sinapomorfie, mediante un approccio interpretativo dei dati olomorfologici, possiamo tentare di ricostruire i passaggi della serie di trasformazioni che legano le specie attuali ai loro ancestri estinti. I reperti fossili (non disponibili nella famiglia Cactaceae) se presenti e in buono stato possono essere d’aiuto nella ricostruzione temporale degli eventi, ma spesso questo non si verifica. Come per i caratteri morfologici, anche per quelli molecolari, uno dei metodi più importanti per attribuire omologie è la similarità in posizione; nel caso dei caratteri molecolari si usa l’allineamento delle sequenze dei nucleotidi (Wiley & Liebermann 2011, 124-129). In un gruppo di taxa la similarità della posizione topografica di un carattere rispetto agli altri caratteri, e del corpo nel suo insieme, viene interpretata come una vicinanza evolutiva, allo stesso modo vengono letti allineamenti simili nelle sequenze dei nucleotidi. Per i dati molecolari la dimensione temporale dei momenti di scissione, dai quali sono nate nuove specie, è data da una scansione di tipo probabilistico. Come già detto l’attuale biologia molecolare è in grado di trattare un enorme ammontare di informazioni comparate, provenienti dalle investigazioni molecolari attraverso software idonei. Vengono poi utilizzati modelli di probabilità e test statistici sull’evoluzione delle sequenze dei DNA analizzati, per esplorare e valutare le diverse ipotesi filogenetiche in competizione. Tra i modelli più in uso abbiamo: parsimony analysis, maximum likelihood analysis e Bayesian analysis. Lo scopo comune a questi metodi, seppure attraverso percorsi diversi, è quello di ricostruire le migliori probabilità di relazione parentale tra i taxa esaminati, mostrandone poi i risultati mediante cladogrammi (schemi di alberi filogenetici). Analizzeremo brevemente i tre approcci. Filosoficamente, in accordo con Wiley & Liebermann (2011, 152), il principio di parsimonia è un principio metodologico che presuppone, che spiegazioni semplici dei dati siano da preferirsi a spiegazioni più complesse. Nella costruzione di un albero filogenetico il principio è così sintetizzato: “Parsimony differs from other approaches because trees are evalueted based on minimum lenght-the minimum number of changes in characters that are hypothesized to have occurred for any particular tree hypothesis. Trees of minimum lenght fulfill the principle. Parsimony, then, is built aroud the proposition that the ‘best tree’ is the tree that describes the evolution of any particular set of characters using thes smallest number of evolutionary changes of the characters analyzed” (ibid., 153). Maximum likelihood e Bayesian analysis sono entrambi modelli filogenetici parametrici, cioè basati su uno specifico modello di evoluzione scelto dall’investigatore. Nei metodi maximum likelihood, secondo Wiley & Liebermann, il criterio base è: “... the preferred tree is the tree that has the highest probability of producing the data we observe [the observed DNA sequences], given a specific [stochastic] model of evolution adopted by the investigator, the tree topology and the branch lenghts between nodes” (ibid., 203). Maximum likelihood usa quindi un esplicito modello evolutivo. Si assume che i dati che osserviamo siano identicamente distribuiti da questo modello. Anche Bayesian analysis usa calcoli di probabilità, ma il criterio impiegato è quello di massimizzare la probabilità a posteriori dell’albero, forniti i dati e il modello di influenza. Tornando alla freccia del tempo, likelihood calcola la probabilità che un evento che è successo nel passato abbia riprodotto un risultato specifico, mentre Bayesian analysis esplora la probabilità a posteriori di trovare il modello/topologia dell’albero, la maggiore probabilità a posteriori condizionata da cosa l’investigatore sia disposto ad accettare come vero prima delle analisi.

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Gli ultimi cambiamenti tassonomici nei taxa superiori delle cactacee. Il livello di genere. L’importanza delle prove molecolari

Dai tempi dello studio di Wallace (1995, 13: 1-12), nel corso delle ultime decadi, i cambiamenti a livello di genere e nei taxa superiori nella famiglia Cactaceae, sono quasi sempre seguiti alle nuove evidenze emerse dalle analisi molecolari. Come già detto, probabilmente il lavoro più completo di biologia molecolare applicato ai taxa superiori (generi, sottotribù, tribù e sottofamiglie) delle cactacee è quello di Nyffeler & Eggli apparso su Schumannia (2010, 6: 109-149). I due autori riconoscono a livello di genere 128 taxa (ibid.), contro i 124 riconosciuti in Hunt et al. (2006, text: 5) e i 125 riconosciuti in Anderson (2001). Ancora 128 sono i generi accettati da Eggli, in qualità di curatore nell’ultima edizione tedesca del volume di Anderson, Das Grosse Kakteen Lexikon (2011), ma togliendo 4 generi: Borzicactus Riccobono, Rimacactus Mottram, Strophocactus Britton & Rose, Vatricania Backeberg, e aggiungendone altri 4: Acharagma (N. P. Taylor) Glass, Cintia Knize & Riha, Pygmaeocereus H. Johnson & Backeberg, Sulcorebutia Backeberg, rispetto alla lista dei generi accettata con Nyffeler. Lo studio di Nyffeler & Eggli del 2010, conferma sostanzialmente le posizioni dell’ultima letteratura (Anderson 2001, 2005; Hunt et al. 2006) riguardo la formazione di alcuni macrogeneri, che comprendono molti ex-generi particolarmente amati dagli appassionati (che ne reclamerebbero la reintroduzione). Tra questi, nella tribù Notocacteae Buxbaum, gli autori confermano che Parodia Spegazzini s.l. (Nyffeler 1999, 7: 6-8) è un clade monofiletico ben supportato, che include i precedenti generi segregati Brasilicactus Backeberg, Brasiliparodia F. Ritter, Eriocactus Backeberg, Notocactus (K. Schumann) Frič, e Wigginsia D. M. Porter (ibid.). Nella stessa tribù riguardo a Eryosice Philippi s.l. (Kattermann 1994) i dati delle analisi non supportano, ne’ l’attuale concetto allargato del genere, includente i precedente generi segregati Horridocactus Backeberg, Islaya Backeberg, Neoporteria Britton & Rose, Pyrrhocactus (Berger) A. Berger e Thelocephala Y. Itô, ne’ un concetto più ristretto, in quanto le relazioni restano irrisolte, richiedendo ulteriori analisi con dati addizionali (ibid.). Le notizie più interessanti arrivano dalla sottotribù Trichocereinae Buxbaum (ibid.), dove sulla scorta di precedenti analisi molecolari (Ritz et al. 2007; Lendel et al. umpubl. data; Nyffeler et al. umpubl. data), si dimostra chiaramente che caratteri fiorali e sindromi di impollinazione sono altamente plastici e evolutivamente labili, e che di conseguenza la presenza o l’assenza di una data sindrome non è indice della vicinanza o lontananza di due linee evolutive. In questo senso distinzioni basate sulle diverse sindromi fiorali, come quelle usate da Backeberg (1966) per separare generi (cioè Echinopsis s.s., Lobivia, Pseudolobivia), sembrano ora svuotate di ogni significato. Nyffeler & Eggli (2010), sottolineano che nella sottotribù Trichocereinae, il gruppo di più difficile interpretazione appare il macrogenere Echinopsis Zuccarini s.l., e i generi attualmente riconosciuti come separati: Acanthocalycium Backeberg (separato da Echinopsis in Anderson 2001, 2005, 2011; ma non in Hunt et al. 2006), Denmoza Britton & Rose, Harrisia Britton, Samaipaticereus Cárdenas, Weberbauerocereus Backeberg, e Yungasocereus F. Ritter. Gli autori riportano che recenti analisi molecolari (Lendel et al. 2006; Schlumpberger 2009), concordano sul fatto che tutti questi taxa sono strettamente relazionati a Echinopsis s.l., essendo estesamente polifiletico. Riguardo le relazioni evidenziate, gli autori ritengono prematuro trarre conclusioni, preferendo attendere i risultati di ulteriori e più completi studi molecolari (cioè basate su un maggior numero di specie). Pur scegliendo di non modificare il genere Echinopsis s.l. come attualmente concepito (Anderson 2001, 2005, 2011; Hunt et al. 2006), i due autori evidenziano che sia i dati molecolari, che l’estesa presenza di ibridi infra-generici (citando Rowley 1994, 2004a, 2004b per la lista), indicano che le Trichocereinae sono evolutivamente relativamente recenti [cioè circa 7.5-6.5 Ma, secondo Arakaki et. al. (2011, 8380)], e che la divergenza a livello genetico tra i vari taxa è inferiore rispetto alle divergenze mostrate dagli stessi nei caratteri morfologici e fiorali. Sembra infatti, che non solo le sindromi fiorali siano evolutivamente labili, ma che anche le forme di crescita siano cambiate ripetutamente all’interno di questo clade. Sui dati di Lendel et al. (2006, umpubl data), gli autori sintetizzano così la loro posizione: “The close relationships between taxa of divergent growth forms (such as the voluminous columns of Echinopsis tarijensis and the tiny dwarf Echinopsis chamaecereus) within one and the same clade illustrates the previously formulated caveats as to ‘logical’ evolutionary pathways in characters transitions in an exemplary manner” (Nyffeler & Eggli 2010). Questo approccio viene completamente stravolto dall’opzione scelta da Schlumpberger (2012, 28: 29-31), tra le due possibili messe in luce dai risultati del suo ultimo studio in Echinopsis realizzato con Susanne S. Renner (2012, 99(8): 1335-1349). Vedremo come quella che sembra “una rivoluzione” tassonomica nel genere Echinopsis, non sia altro che un tentativo di “restaurazione” di vecchie idee, e come l’ipotesi evolutiva più convincente venga elusa dagli autori.

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I mostri del Dr. Schlumpberger

Nel settembre 2012 esce l’atteso lavoro di Schlumpberger & Renner su Echinopsis e generi relazionati (2012, 99 (8): 1335-1349); studio che al momento rappresenta l’analisi più completa sui taxa in questione. Lo scopo è quello di tentare di definire i reali rapporti esistenti tra gli eterogenei componenti di Echinopsis s.l., come attualmente concepita (Anderson 2001, 2005, 2011; Hunt et al. 2006; Nyffeler & Eggli 2010), e generi relazionati della tribù Trichocereeae (Anderson 2001, 2005, 2011; Hunt et al. 2006), o sottotribù Trichocereinae (Nyffeler & Eggli 2010). Il macrogenere attualmente comprende tra i 7 (Nyffeler & Eggli 2010) e gli 11 ex-generi segregati (Anderson 2001). Generi inizialmente separati da distinzioni riguardanti la forma di crescita (ad esempio globulare in Echinopsis s.s. / colonnare in Trichocereus (A. Berger) Riccobono), l’antesi diurna o notturna (Lobivia Britton & Rose / Echinopsis s.s.), o la diversa sindrome di impollinazione (ad es. colibrì in Cleistocactus Lemaire / pipistrelli in Espostoa Britton & Rose). Il numero delle specie comprese va da 77 in Hunt et al. (2006), a 129 in Anderson (2001), oltre a varie sottospecie eterotipiche. Queste analisi molecolari considerano le sequenze di 3866 nucleotidi di cp DNA relative a 144 tra specie e sottospecie in Echinopsis, includendo le specie tipo di ogni nome generico di rilievo, come pure rappresentanti di tutti i generi assegnati in anni recenti alla tribù Trichocereeae, sempre includendo la specie tipo dei generi rilevanti, oltre agli outgroup. I dati relativi a numeri cromosomici, sindromi di impollinazione e forme di crescita, dei taxa in esame, sono tracciati nella filogenia molecolare. Nella PCR sono state amplificate 3 regioni di cp DNA non codificato, usando 3 primers standard pubblicati: il trnS-G intergenic spacer (Hamilton 1999), il trnL region (Taberlet et al. 1991), e il rpl16 intron (Asmussen 1999). Le inferenze filogenetiche basate sul maximum likelihood (ML), ottenute dall’allineamento dei 3866 nucleotidi di cp DNA, per i 144 taxa, appaioni su un filogramma (ibid., 1342-1343). L’assenza di contraddizioni topologiche statisticamente supportate è definita come > 70 % maximum likelihood bootstrap support: numeri ai nodi del filogramma. L’albero è completato dai dati relativi a numeri cromosomici, sindromi di impollinazione e forme di crescita. I ricercatori hanno usato questi dati per rispondere alle seguenti domande (ibid. 1336):

1) Echinopsis s.l. è monofiletico?

2) Qual’è il livello di variazione nelle forme di crescita e sindromi di impollinazione, caratteri che sono stati usati per definire cladi in Echinopsis s.l.?

3) Quanto sono comuni i cambi di ploidia all’interno del gruppo Echinopsis, e sono questi concentrati in alcuni sottocladi, forse a indicare un ruolo per l’ibridazione nell’evoluzione di alcuni gruppi di specie?

Riguardo la prima domanda, le inferenze filogenetiche basate sulla tecnica maximum likelihood, ha prodotto l’albero menzionato, dal quale si rileva che il genere Echinopsis, come attualmente concepito, è altamente polifiletico. Secondo gli autori (ibid., 1336, 1341, 1346-1347) le possibili opzioni, che permetterebbero di interpretare i taxa in esame come cladi naturali (monofiletici) nel senso di Hennig, sono due: a) Per essere monofiletico il genere Echinopsis dovrebbe includere: Acanthocalycium Backeberg (già incluso in Hunt et al. 2006), Arthrocereus A. Berger, Cleistocactus Lemaire (includente Borzicactus Riccobono e Cephalocleistocactus F. Ritter, già inclusi in Hunt et al. 2006), Denmoza Britton & Rose, Espostoa Britton & Rose (includente Vatricania Backeberg, come già in Hunt et al. 2006), Haageocereus Backeberg, Harrisia Britton, Matucana Britton & Rose, Mila Britton & Rose, Oreocereus (A. Berger) Riccobono, Oroya Britton & Rose, Pygmaeocereus H. Johnson & Backeberg, Rauhocereus Backeberg, Samaipaticereus Cárdenas, Weberbauerocereus Backeberg, Yungasocereus F. Ritter. Tutti questi fanno parte, con le attuali specie di Echinopsis s.l., di un clade monofiletico ben supportato (100 % bootstrap support). b) L’alternativa è quella di dividere nuovamente Echinopsis in unità più piccole. Questa soluzione richiede la resurrezione di vecchi nomi generici, e il trasferimento di epiteti a livello specifico. Gli autori discutono poi i maggiori cladi nei quali potrebbe essere diviso Echinopsis s.l. Questi sono: il clade Echinopsis s.s. (100 % bootstrap support); il clade Echinopsis atacamensis (100 % bootstrap); il clade Harrisia (97 % bootstrap); il clade Cleistocactus s.s. (100 % bootstrap), che include Espostoa guentheri, Samaipaticereus, Weberbauerocereus, Yungasocereus, Cephalocleistocactus, Cleistocactus, ma non Borzicactus; il clade Reicheocactus (100 % bootstrap); il clade Oreocereus (99 % bootstrap), che include Oreocereus, Borzicactus, Espostoa, Haageocereus, Matucana, Mila, Oroya, Pygmaeocereus e Rauhocereus; il clade Denmoza (100 % bootstrap) che include i monotipici Denmoza rhodacantha, Echinopsis mirabilis e Acanthocalycium, con Echinopsis leucantha incorporata; il clade Trichocereus (73 % bootstrap); il clade Helianthocereus (76 % bootstrap), e il clade Lobivia (93 % bootstrap). In merito alla seconda domanda, le analisi evidenziano che specie raggruppate secondo i precedenti caratteri distintivi, cioè forme di crescita, caratteri fiorali e sindromi di impollinazione, non formano cladi (ibid., 1341). Gli autori evidenziano comunque che le forme di crescita risultano essere caratteri più stabili e quindi meno soggetti a fenomeni di convergenza, rispetto ai caratteri fiorali e modi di impollinazione, altamente plastici. Alla terza domanda, contrariamente a quanto ritenuto circa l’importanza del ruolo dell’ibridazione nell’evoluzione delle cactacee (Rowley 1994; Machado 2008), ipotizzato anche per Echinopsis (Friedrich 1974, Font & Picca 2001, Anderson 2005), e generi relazionati (Rowley 1994), e nonostante i vari ibridi infragenerici riscontrabili in natura, la poliploidia sembra infrequente nel gruppo Echinopsis e l’ibridazione sembra aver giocato un ruolo di minore rilevanza in questo clade. Nelle conclusioni leggiamo: “ A new generic classification of the Trichocereeae now requires finding morphological characters sofficiently conservative for distinguishing larger groups of species. Seed morphology and growth form, perhaps in combination, seem promising strarting points” (Ibid., 1348). Schlumpberger opta per l’opzione b), reputando “un approccio più pratico” una nuova divisione di Echinopsis in piccoli generi separati. Il risultato è la pubblicazione sul Cactacee Systematics Inititives (2012, 28: 29-31) di 48 nuove combinazioni nei resurretti generi Acanthocalycium, Chamaecereus Britton & Rose, Leucostele Backeberg, Lobivia Britton & Rose, Reicheocactus Backeberg, Soehrensia Backeberg, in vista di una possibile (e probabile) pubblicazione su NCL 2. Avremmo a questo punto alcune obiezioni da avanzare su questo tipo di interpretazione, perché ci sembra un modo per far rientrare dalla finestra quello che si era fatto uscire dalla porta (con tanta fatica).

Obiezione n°1: Praticità. Schlumpberger (ibid.: 29) afferma che, anziché considerare l’idea di un genere Echinopsis monofiletico, che richiederebbe l’inclusione di 15 generi mai prima incorporati, un approccio più pratico consisterebbe nel dividerlo nuovamente in tanti piccoli generi. In disaccordo con questa affermazione, ricordiamo che uno dei sinonimi di Denmoza rhodacantha (Salm-Dyck) Britton & Rose è Echinopsis rhodacantha (Salm-Dyck) Förster, e che il basionimo di Oreocereus hempelianus (Gürke) D. R. Hunt è Echinopsis hempeliana Gürke. Inoltre se è vero che un Echinopsis monofiletico richiede l’inclusione di 15 generi, è altrettanto vero che la divisione proposta da Schlumpberger richiede la resurrezione di almeno 7 vecchi generi (Acanthocalycium, Chamaecereus, Leucostele, Lobivia, Reicheocactus, Soehrensia e Setiechinopsis); ma quel che più conta, non risolve i rapporti interni dei cladi Cleistocactus s.s. e Oreocereus (Schlumpberger & Renner 2012, 99 (8): 1342). Infatti per coerenza con le altre soluzioni adottate, il clade Oreocereus ((99 % bootstrap), o visti gli esiti delle analisi Borzicactus (in accordo con Kimmach), dovrebbe comprendere: Borzicactus (o Oreocereus), Espostoa, Haageocereus, Matucana, Mila, Oroya, Pygmaeocereus e Rauhocereus. Il clade Cleistocactus s.s. dovrebbe comprendere almeno Vatricania guentheri (100 % bootstrap), se non anche Cephalocleistocactus, Samaipaticereus, Weberbauerocereus, Yungasocereus (100 % bootstrap). Vediamo quindi che sotto il profilo pratico la proposta di Schlumpberger non risolve in modo naturale le relazioni interne al gruppo in esame.

Obiezione n°2: Comunicazione, chiarezza, ordine. In accordo con Hunt (1999, 7: 8), pensiamo che i nomi, prima ancora che classificare, servano per comunicare. Ma per comunicare devono possedere una coerenza interna che li colleghi alla realtà che vogliono identificare, devono esprimere un ordine. Sotto questo profilo i “nuovi” generi proposti da Schlumpberger non esprimono ne’ chiarezza, ne’ ordine. Contrariamente ai generi originali di Britton & Rose e Backeberg, che per quanto non naturali (nel senso di Hennig), mostravano comunque una coerenza interna basata sulla riconoscibilità di uno o più caratteri che accomunavano gli appartenenti al gruppo generico. Per esempio: più o meno globulare - antesi diurna = Lobivia; globulare - fiori bianchi a forma di imbuto - antesi notturna = Echinopsis s.s.; colonnare - fiori bianchi, larghi - antesi notturna = Trichocereus: etc. Ma se tentiamo, nello stesso modo, di definire come comunicare le distinzioni tra i generi proposti da Schlumpberger, si genera un caos. Infatti, il nuovo genere Chamaecereus Britton & Rose, comprende ex-membri (e caratteri) di Lobivia, come Lobivia saltensis Spegazzini, o Lobivia stilowiana Backeberg. Il nuovo genere Lobivia Britton & Rose, comprende ex-membri (e caratteri) di Echinopsis, come Echinopsis calochlora K. Schumann, o Echinopsis mamillosa Gürke. Il nuovo genere Soehrensia Backeberg, comprende ex-membri (e caratteri) di Lobivia, come Lobivia crassicaulis R. Kiesling, o di Trichocereus, come Trichocereus angelesiae R. Kiesling. Etc. Troviamo per lo meno discutibile, la già citata, conclusione di Schlumpberger & Renner, con la quale gli autori si interrogano sulla possibilità di trovare per la classificazione dei generi delle Trichocereeae: “morphological characters sufficiently conservative for distinguishing larger groups of species. Seed morphology and growth form, perhaps in combination, seem promising starting points” (2012, 99 (8): 1348). Non ci sembra una modalità seria di procedere, quella di cambiare i nomi a 48 taxa, e di chiedersi solo successivamente quali potranno essere i caratteri che li identificheranno. Non sono forse i caratteri molecolari, caratteri a tutti gli effetti? E quindi come mai non bastano a definire i gruppi in questione? La risposta è: non bastano perché l’ipotesi filogenetica scelta è quella che meno si approssima a qualcosa che esista in natura. Scegliendo l’opzione che unifica i 15 generi in Echinopsis, la definizione per identificarli come parti del genere così composto invece è semplice: Echinopsis con caratteri fiorali e/o sindromi di impollinazione modificate.

Obiezione n°3: Qualcosa che sia approssimativamente vero in natura. Tra i risultati delle analisi molecolari deve essere scelta l’ipotesi filogenetica che porta a una valida stima di qualcosa che esiste in natura. In altre parole il successo del modello evolutivo scelto nel predire nuovi dati, richiede che l’adattamento dei dati al modello, porti a qualcosa che sia approssimativamente vero in natura (vedi anche Sober 2008). Cosa sono Cleistocactus, Denmoza, Haageocereus, Oreocereus, Weberbauerocereus, etc, se non Echinopsis con caratteri fiorali e/o sindromi di impollinazione modificate? L’ipotesi è confermata sia a livello molecolare, che a quello morfologico (o meglio olomorrfologico, nel senso di Hennig). Per anni le analisi molecolari hanno evidenziato la relazione molto stretta tra Echinopsis s.l. e altri generi all’interno della tribù Trichocereeae, o sottotribù Trichocereinae, (Nyffeler 2002, 317, 319; Lendel et al. 2006, umpubl. data in Nyffeler & Eggli 2010), sino alle ultima analisi di Schlumpberger & Renner (2012) che ribadiscono, in modo ancora più chiaro, che una buona parte dei generi che costituiscono la tribù Trichocereeae formano con Echinopsis s.l. un unico clade monofiletico ben supportato. In natura l’esempio più eclatante è costituito dalla monotipica Denmoza rhodacantha, taxon diversamente attribuito da vari autori a Cleistocactus, Echinopsis e Oreocereus, e che per noi rappresenta il perfetto anello di congiunzione tra l’attuale concetto di Echinopsis s.l. (che è risultato polifiletico), e un nuovo macrogenere Echinopsis monofiletico, che includa anche le specie di Echinopsis con caratteri fiorali e/o sindromi di impollinazione modificati.

Obiezione n°4: Coerenza. Essendo i risultati della biologia molecolare espressi attraverso teorie, metodi e tecniche che descrivono regole, non leggi (si pensi al processo col quale si interpretano le sinapomorfie, o alle inferenze filogenetiche affidate alle tecniche ML, etc), la coerenza dei ricercatori nell’interpretazione dei risultati è fondamentale. Ricordiamo che in un caso analogo, il già citato genere Parodia, le possibili opzioni / interpretazioni, hanno dato luogo a scelte opposte rispetto a quelle proposte per Echinopsis. Nel 1999 Nyffeler su Cactaceae Consensus Initiatives, propone ai membri dello IOS Cactaceae Working Party, i risultati derivanti dalle analisi molecolari condotte usando ITS (nuclear ribosomal DNA) e trnL-trnF (cp DNA) come markers molecolari, per indagare le relazioni tra i membri della sottotribù Notocactinae, e in modo particolare tra quelli interni a Parodia s.l. (cioè Brasilicactus, Brasiliparodia, Eriocactus, Notocactus, Parodia e Wigginsia) (1999, 7: 6-8). Dopo aver rilevato la posizione basale nel gruppo di Brasilicactus / Brasiliparodia e Eriocactus, che nelle parole di Nyffeler: “are not true parodias” (ibid.: 7), si propongono 3 possibili opzioni:

1) Includere tutto in Parodia s.l., incluso Brasilicactus / Brasiliparodia, Eriocactus, ‘Notocactus’ s.s., e Wigginsia.

2) Riconoscere Brasilicactus / Brasiliparodia, Eriocactus e Parodia s.l. (includente ‘Notocactus’ s.s., e Wigginsia).

3) Riconoscere Brasilicactus / Brasiliparodia, Eriocactus, e probabilmente più di 5 differenti generi per il resto dei membri da ‘Notocactus’ s.s., Parodia s.s., e Wigginsia. All’epoca Hunt scelse la prima opzione, argomentandola così: “And since, in biological nomenclature, the genus is part of the name, stability is best served by reserving that catagory for the largest readily recognizable ‘natural’ (i.e. evolutionary or phylogenetic) units,... This would be my main reason for preferring the more inclusive options Reto identifies” (1999, 7: 8). Filosoficamente concordiamo con Hunt, e nonostante la diversità di Eriocactus rispetto agli altri membri del gruppo, per coerenza concordiamo anche con l’opzione filogenetica adottata (Anceschi & Magli 2013, 7: 27-29). Schlumpberger ha discusso le sue conclusioni con il “team” NCL (2011, 25: 30; 2012, 26: 7; 2012, 28: 3-4), e il risultato sono le 48 nuove combinazione proposte su CSI (2012, 28: 29-31). Non vediamo alcuna coerenza di approccio in questo modo di procedere. Forse Cleistocactus e Oreocereus debbono essere più “protetti” rispetto a Notocactus e Eriocactus? Dal canto nostro pensiamo che il tempo non possa tornare indietro, e che le indicazioni dei reali rapporti tra i taxa coinvolti nello studio di Schlumpberger & Renner siano piuttosto chiari. Per quanto evidenziato preferiamo optare per la soluzione di un macrogenere Echinopsis monofiletico, con la conseguente inclusione dei generi indicati dallo studio di Schlumpberger & Renner attualmente implicati in cactusinhabitat.org (Cleistocactus, Denmoza, Haageocereus, Harrisia, Oreocereus, Vatricania e Weberbauerocereus). Per i nuovi nomi e le nuove combinazioni richieste in Echinopsis vedi Anceschi & Magli (2013b, 37-40).

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L’interpretazione della freccia del tempo nei metodi per la definizione dei taxa inferiori (le specie). I semaphoronts di Hennig

Come abbiamo visto, la dimensione temporale e la ricostruzione di un’esatta cronologia dei reali eventi storici è fondamentale per distinguere i gruppi monofiletici nei taxa superiori (Hennig 1966, 238-239). Gli strumenti a nostra disposizione sono il sistema basato su simplesiomorfie / sinapomorfie (ibid. 89), oltre alle migliori probabilità di relazioni parentali offerte dai modelli evolutivi scelti nella rielaborazione dei dati molecolari. Ma esistono metodi che ci possono aiutare nella definizione e distinzione delle specie in modo naturale, e se sì quali sono? A livello biologico, la distinzione tra specie coinvolge il concetto stesso che sostiene la definizione di specie (Mayr et al. 1953), che l’autore sintetizza così: “Species can maintein themselves only if they have genetic isolating mechanisms” (Mayr 1957). Ma sappiamo anche quanto sia difficile in molti casi stabilire se le popolazioni che costituiscono una specie naturale siano realmente isolate dalle popolazioni delle specie vicarianti che le circondano. A livello morfologico, o meglio olomorfologico, lo strumento messo a disposizione da Hennig per la definizione dei taxa inferiori (le specie), è basato sul concetto di semaphoront (1966, 6-7, 32-33, 63, 65-67). Il mattone che sta alla base del sistema biologico non è ne’ la specie, ne’ l’individuo, ma: “... the individual at a particular point of time, or even better, during a certain, theoretically infinitelly small, period of its life. We will call this element of all biological systematics... the character-bearing semaphoront” (ibid, 6). L’autore specifica che un semaphoront rappresenta l’individuo durante un certo, seppur breve, periodo di tempo, e non in un punto del tempo. Aggiunge che non esistono regole per definire per quanto tempo il semaphoront esista come entità tassonomica, e che questo dipende dalla velocità alla quale cambiano i diversi caratteri. Al massimo può durare l’intera vita dell’individuo, ma in molti casi, soprattutto negli organismi sottoposti a processi metamorfici o ciclomorfici, può essere notevolmente più breve. Le caratteristiche morfologiche del semaphoront sono la sintesi dei suoi caratteri fisiologici, morfologici ed etologici, la totalità di questi caratteri viene definita olomorfia del semaphoront (ibid., 7). L’olomorfologia comparata tra semaphoronts viene definita come la scienza ausiliaria della sistematica (ibid., 32-33). L’autore prosegue dicendo che differenze di forma tra semaphoronts relazionati ontogeneticamente, cioè nello stesso individuo, vengono chiamati metamorfismi, aggiungendo che nel linguaggio comune i metamorfismi sono le differenti forme legate ai passaggi di età di un individuo. Citando Naef: “We comprehend ontogenesis by fixing a series of momentary pictures on ‘stages’ out of an actually infinite number. In practice we select as many as seem necessary for understandig the process.” (ibid., 33). E ancora, evidenzia che la tendenza generale è quella di distinguere solo poche fasi in una metamorfosi. Cioè solo se le differenze sono abbastanza grandi, e solo se la durata della relativa costanza di un carattere è apprezzabilmente lunga nel processo di trasformazione; ribadendo che non esistono regole per definire una fase (ibid., 33). Nel sommario di Taxonomic Tasks in the Area of the Lower Categories, Hennig riepiloga così la sua idea: “The semaphoront (the character bearer) must be regarded as the element of systematics because, in a system in which the genetic relationships between different things that succeed one another in time are to be represented, we cannot work with elements that change with time. Accordingly the semaphoront corresponds to the individual in a certain, theoretically infinitely small, time span of its life, during wihich it can be considered unchangeable.” (ibid., 65). Tutti i “portatori di caratteri” appaiono così connessi tra loro dalle relazioni ontogenetiche e tokogenetiche (sessuali tra i membri della stessa comunità riproduttiva), dall’inizio della storia della vita sino ai giorni nostri. Anche in relazione all’uso di questo strumento, come per l’uso di simplesiomorfie / sinapomorfie per la definizione dei taxa superiori, Hennig segnala che i limiti di applicabilità vanno determinati empiricamente caso per caso. Inoltre che l’olomorfia comparata va usata come scienza accessoria per il riconoscimento di relazioni genetiche che devono essere presentate all’interno del sistema tassonomico, e a parte il chorological system che approfondiremo in futuro, Hennig non fornisce ulteriori strumenti per la definizione delle specie (ibid., 67). Non capiamo come mai i successori di Hennig non abbiano dato rilievo all’idea dei semaforonts, che sono i protagonisti delle prime 40 pagine di Philogenetic Systematics (1966), e per l’autore il maggiore strumento per la definizione dei taxa inferiori. Come se la realtà della continua trasformazione, o metamorfosi, degli esseri viventi attraverso infinite fasi, alcune delle quali discrete e misurabili, essendo Hennig un entomologo, fosse esclusivo appannaggio del mondo degli insetti. In Wiley e Liebermann (2011) il termine semaphoront non appare, e il concetto più prossimo è quello di “ontogenetic homology”, al quale è dedicata mezza pagina, e che viene così sintetizzato: “The use of the concept of ontogenetic homology on the systematic level represents an attempt to study the differentiation and growth of the organism and to provide a basis for comparisons between organisms” (ibid., 116). In realtà i semaphoronts di Hennig, anche se non sempre applicabili, sono l’unico strumento che ci permette una comparazione tra specie in un tempo reale, presente, quello delle distinte ontogenesi dei taxa confrontati. In questo senso le relazioni evidenziate, sono filogeneticamente naturali (nel senso di Hennig). I semaphoronts possono essere usati per definire i rapporti tra specie (solitamente di linee evolutive prossime) nei seguenti modi:

a) In un processo di ontogenesi della stessa linea evolutiva (specie), possono essere identificate distinte fasi di crescita, che mostrano la costanza relativa di uno o più caratteri per un tempo abbastanza lungo (cioè distinti semaphoronts), fasi che in precedenza erano state interpretate come distinte linee filetiche.

b) Possiamo confrontare i processi ontogenetici di due linee filetiche, e attraverso la comparazione dei semaphoronts che le costituiscono (se riconoscibili), valutarne la prossimità o la distanza.

Nel corso dei nostri studi abbiamo utilizzato i semaphoronts di Hennig in varie occasioni. Un esempio del caso b) è quello di Parodia calvescens (N. Gerloff & A. D. Nilson) Anceschi & Magli, che si distingue da Parodia erinacea (Haworth) N. P. Taylor [includente Parodia sellowii (Link & Otto) D. R. Hunt e Parodia turbinata Hofacker], per mostrare nel processo di ontogenesi 2 distinti semaphoronts. Il primo mostra una spinatura delicata, composta da 3-6 spine radiali biancastre, lunghe 2-3 mm, sino al raggiungimento dell’età della pubertà (2 anni circa); il secondo, che si manifesta dalla pubertà in poi, mostra le vecchie areole che perdono le spine e le nuove che non le producono più, lasciando il taxon completamente calvo. Nel processo di ontogenesi di P. erinacea invece, il secondo semaphoront non appare. Esiste cioè una normale progressione della crescita delle spine dalla fase giovanile a quella adulta. Sulla base di queste evidenze i due taxa possono essere riconosciuti come linee filetiche distinte (Anceschi & Magli 2013, 6: 29-30). Aggiungiamo che le popolazioni che costituiscono P. erinacea possono fornirci inoltre un esempio del caso a). Infatti in una prima fase del processo di ontogenesi, il taxon assume un aspetto discoide-globulare (il semaphoront noto come P. erinacea / P. turbinata), per passare a una seconda fase contrassegnata da una tipica forma allungata (il semaphoront noto come P. sellowii). Il sistema basato su simplesiomorfie / sinapomorfie, e la priorità data ai caratteri e alle analisi molecolari, costituiscono attualmente i metodi e le tecniche più adoperati nella definizione filogenetica dei taxa superiori. Per quanto riguarda invece la definizione filogenetica dei taxa inferiori, dove il sistema basato su simplesiomorfia / sinapomorfia può fallire per carenza dei caratteri utili da analizzare, e dove non sappiamo fin dove il dato molecolare possa essere esplicativo, pensiamo che a livello specifico si riveli utile quella scienza accessoria, per riconoscere relazioni genetiche all’interno di un sistema tassonomico, che Hennig definisce olomorfia comparata tra semaphoronts (1966, 66-67).

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Sommario e conclusioni

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Aggiornamenti a Tassonomia, sommario e conclusioni (2010)

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Tassonomia

I nomi delle piante

Indichiamo qui le linee guida adottate da cactusinhabitat.org riguardo ai nomi da dare alle piante, argomento controverso e dibattuto dalle diverse scuole, che sostanzialmente sono schierate su due posizioni, quella degli splitters (i divisori, che colgono soprattutto le differenze) e quella dei lumpers (gli accorpatori, che colgono soprattutto le somiglianze). Posizioni che non sono certo appannaggio esclusivo del mondo dei cactus, ma che riguardano ogni altra comunità di specialisti che si dedica alla classificazione degli organismi viventi. Le categorie tassonomiche (taxa) del sistema classificatorio linneano (1753) delle quali ci occuperemo sono il genere e la specie, quelle cioè che identificano formalmente il nome della pianta, oltre a essere per questo quelle maggiormente soggette ai cambiamenti di nomenclatura.

Il concetto di specie

Mentre il genere è la categoria tassonomica che comprende specie simili tra loro, e che per sua natura ne dovrebbe comprendere il maggior numero possibile, dal tempo di Linneo la specie rappresenta l’unità tassonomica minimale di classificazione. Ma fino ad oggi nessuno è riuscito a definire con chiarezza in cosa consista esattamente. Darwin (1872 / ed. it. 1967, 548; 549) era convinto che un giorno i sistematici non sarebbero più stati ossessionati dal dubbio se questa o quella forma fossero vere specie, e che sarebbero giunti infine a liberarsi della vana ricerca sul significato del termine. Lungi da tutto questo, nel tempo si è passati da una definizione più strettamente morfologica, che univa in una stessa specie gruppi di individui che mostravano caratteristiche morfologiche comuni, senza specifiche però circa il numero e la natura di queste caratteristiche, a quella conosciuta come la concezione biologica di specie, così definita dal famoso ornitologo tedesco Ernst Mayr: “Le specie sono gruppi di popolazioni naturali che di fatto o potenzialmente si incrociano tra loro e che sono riproduttivamente isolati da altri gruppi.” (1942, 120). Si noti che Mayr non da indicazioni circa l’aspetto che dovrebbero avere queste popolazioni. Ultimamente l’approccio più accettato è in pratica un misto dei due metodi, e per le cactacee viene così espresso da David Hunt “Una serie di popolazioni simili che si trasformano tra loro e fertili tra loro, riconoscibilmente distinte da altre serie e riproduttivamente distinte da altre serie.” (Hunt et al. 2006, text: 4). Sottolineiamo che la potenzialità considerata nella definizione di Mayr non appare in quella di Hunt, il quale però prosegue dicendo che in teoria le popolazioni in questione sono geneticamente capaci di ibridarsi, ma che questo non succede in quanto isolate in natura da barriere biogeografiche o ecologiche.

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Generi e specie nelle cactacee

Dalla fine del XIX secolo gli specialisti hanno sviluppato diverse tendenze circa il numero di generi e specie da riconoscere nelle cactacee. La prima grande monografia sulla famiglia è Gesamtbeschreibung der Kakteen (Monografia Cactacearum) di Karl Schumann (1897-99), nella quale l’autore riconosce 21 generi. Successivamente, negli anni Venti del Novecento, i due botanici statunitensi Nathaniel Lord Britton & Joseph Nelson Rose considerati i primi splitters nella storia di queste piante, nei quattro volumi del loro The Cactaceae (1919-23), dividono i 21 generi di Schumann in 124. Questo orientamento alla polverizzazione della famiglia in un maggior numero di generi e specie appare ancora più evidente nell’opera in quattro volumi del tedesco Friederich Ritter, Kakteen in Sudamerika (1979-81), che però tratta esclusivamente le cactacee sudamericane, giungendo al culmine nel lavoro del connazionale Curt Backeberg che, nel Kakteen Lexicon (1966), propone 233 generi. Dopo la fine degli anni Ottanta, un gruppo di specialisti internazionali nato come IOS Cacataceae Working Party, della sezione Cactaceae dell’International Organization for Succulent Plant Study, si propose come obiettivo un approccio tassonomico più tradizionale. La ricerca di un nuovo consenso sui generi delle cactaceae e i relativi progressi sono stati pubblicati da due membri del gruppo, David Hunt & Nigel Taylor, su Bradleya (1986, 4: 65-78; 1990, 8: 85-107); nel 2000 Il gruppo cambia nome diventando International Cactaceae Systematics Group (ICSG) (Hunt 2000, 9: 1). Un altro membro dell’ICSG, Ted Anderson, pubblica l’opera monografica The Cactus Family (2001) dove riconosce 125 generi e 1810 taxa, tra specie e sottospecie. Ma l’opera che rappresenta il risultato degli sforzi congiunti dell’ICSG, e probabilmente la monografia più completa apparsa sino a questo momento sulla famiglia delle cactacee è The New Cactus Lexicon (Hunt et al. 2006), in 2 volumi, dove gli autori fissano la loro visione in 124 generi (lo stesso numero di Britton & Rose) e 1816 tra specie (1438) e sottospecie eterotipiche (378) (Hunt et al. 2006, text: 5).

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Un approccio più tradizionale

In che cosa consiste questo approccio più tradizionale dell’ICSG (i lumpers della situazione) rispetto alla scuola di Backeberg, Ritter e dei loro successori (gli splitters)? Quali sono le differenze tra le due scuole, e qual è la nostra posizione? La prima differenza è di tipo organizzativo, mentre le opere di Backeberg e Ritter erano il frutto delle imprese e degli studi di singoli individui, i risultati dell’ICSG si devono alla collaborazione di un gruppo. In merito ai livelli generico e specifico, i maggiori cambiamenti proposti dalla nuova scuola sono generalmente addotti alle evidenze emerse dagli studi molecolari condotti nelle ultime decadi; mentre a livello intraspecifico la novità, giustificata da una maggiore funzionalità in ambito tassonomico, consiste nella sostituzione della categoria di varietà, ampiamente usata in passato, con quella di sottospecie. Sui generi, la frattura tra le due scuole deriva dalla compattazione di alcune serie di ex generi (molto amati da appassionati e collezionisti), in pochi macrogeneri. Alcuni esempi: Echinopsis Zuccarini, comprendente ora Acanthocalycium Backeberg, Chamaecereus Britton & Rose, Helianthocereus Backeberg, Lobivia Britton & Rose, Pseudolobivia Backeberg, Setiechinopsis (Backeberg) De Haas, Soehrensia Backeberg e Trichocereus Riccobono. Eriosyce Philippi, nella revisione e amplificazione di Fred Kattermann (1994) ora comprendente Horridocactus Backeberg, Islaya Backeberg, Neoporteria Britton & Rose, Pyrrhocactus (Berger) A. Berger, Thelocephala Y. Itõ. E soprattutto Parodia Spegazzini in una delle opzioni proposte da Reto Nyffeler per il genere (1999, 7: 6-8), ora comprendente Brasilicactus Backeberg, Brasiliparodia F.Ritter, Eriocactus Backeberg, Notocactus (K. Schumann) Frič, e Wigginsia D. M. Porter. Qui la resistenza dei sostenitori del genere Notocactus separato da Parodia (e comprendente gli altri segregati), basato fondamentalmente sulla diversità morfologica dei semi (Glaetzle & Prestlé 1986, 4: 79-96), è ben lontana dal rendere le armi. Per quanto riguarda le specie, Backeberg & Co. hanno coniato molti nomi superflui che ora giustamente vengono elencati tra i sinonimi; questo, a nostro giudizio, si deve al fatto che in passato molti ricercatori (ad eccezione di Ritter) non hanno dedicato tempo sufficiente allo studio delle piante nel loro luoghi di origine, scambiando spesso le diverse fasi evolutive dello stesso taxon per taxa distinti, e “scoprendo” così la stessa pianta diverse volte (vedi Parodia mueller-melchersii). Un’altra ragione sta nel desiderio di arricchire il mondo degli appassionati con nuove scoperte, preferendo, allo scopo, cogliere le minime differenze piuttosto che le somiglianze. Inoltre per la nostra esperienza l’insieme delle popolazioni che costituiscono una specie in habitat mostra una variabilità che, mentre in natura è legata da un continuum spaziale, in coltivazione risulta artificialmente frammentata generando distinzioni superflue. In accordo con Ritter, nella lettera a Krainz del 25 aprile 1955 (Leuenberger 1996), pensiamo che per quanto sia possibile la classificazione dei cacti, questa deve avvenire solamente attraverso accurati studi nei luoghi di origine, perché, ci sentiamo di insistere, spesso i risultati di osservazioni condotte su piante in coltivazione (anche se certificate da field numbers) possono risultare fuorvianti.

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Varietà o sottospecie?

Come appena accennato, uno dei cambiamenti proposti dall’ICSG è la sostituzione della categoria di varietà con quella di sottospecie, che diventa l’unica categoria formale riconosciuta a livello intraspecifico. La decisione è stata presa nel corso di un workshop condotto in occasione di un incontro del gruppo nel 1994, e il riassunto è riportato da Hunt su Cactaceae Consensus Initiatives (1999d, 8: 23-28). Al punto 15 è da notare come nella discussione si sottolinei che nella scelta tra varietà e sottospecie non è coinvolto il concetto che implica la categoria, bensì le conseguenze nomenclaturali che questa scelta comporta; al punto 17 Taylor afferma che sottospecie, essendo stata meno usata, lascerebbe più libero e rapido il lavoro degli autori. Al punto 19 gli argomenti di Taylor vengono accettati, e confermata la categoria di sottospecie. Solo successivamente la scelta verrà sostanziata anche da un significato assimilabile all’idea che dai tempi di Darwin si ha del termine sottospecie, vale a dire quello di razza geografica; o con le parole di Hunt: “… varianti significative, specialmente quelle rappresentanti gruppi di popolazioni occupanti aree più o meno distinte all’interno del range totale di una specie.” (Hunt et al. 2006, text: 4).

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Dalla confusione delle varietà a quella delle sottospecie

Se è vero che Backeberg & Co. sono stati i responsabili di molti nomi superflui è altrettanto vero che attualmente i lumpers sono responsabili di alcuni discutibili cambi nomenclaturali. Ad esempio, come sottolineato da Rob Bregman (2002, 13: 18-20), nella già citata opera di revisione e ampliamento del genere Eriosyce, Kattermann (1994) mantiene in realtà nella più parte i vecchi nomi generici come Pyrrhocactus, Islaya, Neoporteria, etc. semplicemente abbassandoli di rango e riconoscendoli come gruppi a livello intragenerico all’interno di Eriosyce. Il caso riportato da Bregman è rappresentativo di una modalità che non ci convince; se davvero pensiamo che Pyrrhocactus (Berger) A. Berger e gli altri ex generi non siano distinti da Eriosyce Philippi perché volerli distinguere a livello intragenerico, creando così ancora inutili taxa? Per questa ragione, per quanto noi si accetti Eriosyce Philippi sensu lato (come per altro Echinopsis Zuccarini e Parodia Spegazzini in senso lato), in quanto questa interpretazione nei casi citati è più prossima a quanto riscontrato in natura, riteniamo fuorvianti le distinzioni intrageneriche. Tornando ora alla disputa sull’uso di varietà o di sottospecie, dovendo esprimere un’opinione, in accordo con Detlev Metzing (in Hunt 1999d, 8: 26), avremmo pensato che forse la scelta di varietà essendo più in uso nelle cactacee avrebbe originato meno cambi nomenclaturali. Tuttavia l’osservazione delle specie nei loro habitat ci ha portato alla convinzione che nessuna delle due categorie è necessaria per meglio comprendere le evoluzioni di una specie naturale. Non stiamo dicendo che nel range di una specie non siano distinguibili popolazioni con caratteristiche morfologico-geografiche distinte, diciamo piuttosto che questa variabilità fa parte dell’idea di specie che ci si fa osservandone le popolazioni in habitat, e che per indicare queste varianti minori il termine forma (senza valore tassonomico) ci sembra più appropriato. Troviamo ancora di grande contemporaneità il pensiero di Linneo quando dice che il botanico non ha il dovere di tenere conto di queste lievi variazioni. Pensiamo che ancora oggi, come ai tempi di Linneo, l’unità minimale di misura in classificazione debba essere la specie, e che ogni ulteriore categoria al di sotto di questo rango confonda piuttosto che semplificare le idee. Purtroppo in alcuni casi viene il dubbio che il solo motivo che possa giustificare l’uso formale di una categoria intraspecifica sia il desiderio di siglare con il proprio nome i “nuovi taxa” così ottenuti.

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Setaccio a maglie larghe

Pensiamo che sostanzialmente la natura, e quindi l’evoluzione, seguano leggi semplici, e che più semplicemente si riescano a descrivere i processi che vi si svolgono, più questi risulteranno comprensibili. Siamo inoltre d’accordo con Hunt (1999d, 8: 24) sul fatto che lo scopo primo dei nomi è quello di identificare prima ancora che classificare, quindi bisogna che i nomi siano il risultato di definizioni semplici. Perché usare un sistema trinomio se quello binomio è sufficiente a esprimere la varietà esistente in natura? Forse il concetto di specie, come generalmente in uso, è troppo restrittivo per descrivere il reale. Se si vuole veramente arrivare a una classificazione più stabile, nella quale i taxa non siano in balia del dubbio, ad esempio circa l’identità dell’impollinatore (vedi Pilosocereus minensis), dobbiamo allargare il range dei caratteri atti a delimitare i confini di una specie naturale, o per così dire, dobbiamo usare per questa operazione di filtro un setaccio a maglie larghe che eviti le complicazioni che si producono quando si usano maglie più strette. L’utilizzo di maglie larghe ci permette di meglio definire le entità realmente distinte in natura come specie, senza più la necessità di riconoscere ulteriori suddivisioni a un rango più basso.

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I caratteri identificativi delle specie

Ma quali e quanti sono i caratteri che i tassonomi considerano per attribuire il rango di specie, e quali tra questi sono i più importanti? A metà del Settecento Linneo costruì il suo sistema classificatorio oggi ancora in uso, credendo in un mondo statico dove Dio aveva creato le diverse specie in una unica soluzione, specie che di conseguenza erano distinte o simili tra loro per le pure caratteristiche morfologiche. Oltre un secolo dopo Darwin (1872) con la teoria sull’evoluzione dove, al contrario, le specie sono in perenne fluttuazione, sposta l’attenzione sul fatto che la stretta somiglianza tra le specie è dovuta alla comunanza di discendenza, e che quindi i caratteri morfologici sono importanti in classificazione solo in quanto rivelatori della discendenza. Ne deriva che la disposizione gerarchica di gruppi dentro altri gruppi creata da Linneo, per Darwin deve essere genealogica (1872 / ed. it. 1967, 483, 488, 492-493). Questa idea sulla genealogia della vita sta alla base della moderna tassonomia o classificazione naturale. Darwin in questo modo ha dato sicuramente una direzione ai tassonomi senza però poi indicare come muoversi, ma torneremo sul punto più avanti. Nell’ambito delle cactacee e nell’ottica di una classificazione naturale, importanti studi sulla morfologia, con particolare attenzione a fiori e semi, sono stati condotti dal botanico austriaco Franz Buxbaum (1950; 1957-1960). Poi, tra tutti gli elementi morfologici (fusto, coste, areole, foglie, spine, radici, fiori, frutti e semi), particolare attenzione è stata data allo studio dei semi (Barthlott & Voit 1979; Barthlott & Hunt 2000; Stuppy 2002), in quanto si è supposto che i loro caratteri fossero più stabili e meno soggetti ai fattori ambientali (Anderson 2001, 34). Di altro avviso appare Gyldorro (2002, 14: 27), il quale, sottolineando che nel mescolamento e rimescolamento dei geni dominanti sembianze simili possono apparire come prodotti finali di distinte linee evolutive, reputa senza senso utilizzare i caratteri dei semi come più affidabili per definire i generi, e, aggiungiamo noi, le specie; o come affermato da Roy Mottram: “I semi sono soggetti alla convergenza come qualsiasi altro carattere…” (in Hunt & Taylor 1990, 8: 102). Dopo l’epoca dei semi l’ultima frontiera indagata per scovare il carattere fondamentale utile a definire le specie (e ogni altro taxa al di sopra di questa), consiste nell’uso delle variazioni molecolari. Si applicano le tecniche della sistematica molecolare (le sequenze del DNA) per inferire relazioni, evitando così quasi completamente i fenomeni di somiglianza dovuti a evoluzione parallela; in quanto le caratteristiche molecolari non sono soggette alle stesse forze esterne alle quali è sottoposta la morfologia degli organismi (Wallace 1995, 13: 2). I dati molecolari così raccolti ben si prestano ad essere interpretati con i metodi della cladistica, ossia attraverso l’uso di cladogrammi, schemi rappresentanti alberi evolutivi sui quali appaiono i collegamenti tra le varie linee evolutive (taxa) oggetto di studio. Facciamo un passo indietro per spendere due parole sull’opera del padre della cladistica, il tedesco Willi Hennig (1950; 1966), passata praticamente inosservata alla sua prima pubblicazione, e considerata ora insostituibile tanto che come ricorda Gordon Rowley: “Nessuna revisione tassonomica è ritenuta completa senza un cladogramma.” (1997, 4: 13). In estrema sintesi i capisaldi delle tesi di Hennig si possono riepilogare così: a) Per identificare gruppi di parenti evolutivi si devono usare solo novità evolutive condivise. b) Possono essere riconosciuti come gruppi di parenti evolutivi (o cladi) solo quelli che contengono tutti i discendenti di un ancestro. Hennig dice monofiletico o olofiletico, un taxon (categoria) che comprende tutti i membri di un clade (ramo evolutivo); parafiletico, un taxon che non comprende tutti i membri di un clade; e polifiletico, un taxon che comprende diversi cladi. Risulta chiaro che possono essere definiti come gruppi naturali solo i taxa monofliletici. Questi metodi sembrano finalmente essere venuti in soccorso a quella visione genealogica che secondo Darwin doveva essere seguita dalla moderna tassonomia. Ma possiamo considerare i dati molecolari, e la loro interpretazione nei cladogrammi, come “i dati” che fanno pendere l’ago della bilancia in una o l’altra direzione all’atto della definizione di una specie, di un genere, o di qualsiasi altra categoria tassonomica? E ancora, siamo sicuri che sia un dovere della tassonomia quello di corrispondere a criteri filogenetici? Riguardo alla prima domanda va sottolineato che attualmente i dati molecolari vengono indagati, quasi esclusivamente in due casi, o quando le ipotesi precedentemente sviluppate in base alle evidenze sul fenotipo (morfologiche) portano a conclusioni dubbie (per il sospetto di possibili fenomeni di convergenza evolutiva), oppure semplicemente a conferma dei dati morfologici acquisiti. Se uno studio completo di tutte le possibili relazioni tra i taxa che compongono la famiglia sembra impossibile da affrontare, è evidente che questo tipo di utilizzo del dato molecolare può portare a conclusioni molto soggettive. Per altro non è raro che cladogrammi ottenuti con sets di caratteri leggermente diversi (Rowley 1997, 4: 14), o con gli stessi sets di caratteri codificati con un diverso metodo, oppure con gli stessi sets di caratteri e stesso metodo, ma una diversa interpretazione, portino a visioni differenti della storia di un gruppo di taxa, come è avvenuto nel caso della fissione o fusione dei segregati del genere Opuntia Miller (Hunt 2007, 22: 7). Quando poi l’evidenza del dato molecolare non conforta la percezione dei nostri sensi, e quindi le nostre convinzioni, si dice che il caso richiede ulteriori approfondimenti, o più semplicemente lo si ignora, come è successo per esempio con Echinocactus grusonii Hildmann, nel volerlo ancora considerare un Echinocactus Link & Otto (come comunemente accettato). Infatti per essere monofiletico il genere Echinocactus dovrebbe comprendere Astrophytum Lemaire (Wallace 1995, 13: 7-8), ma visto che il genere Astrophytum si distingue facilmente, non si procede in questo senso e si accetta un genere Echinocactus parafiletico, quindi un gruppo non naturale secondo il metodo di Hennig. Inoltre, sempre E. grusonii sembrerebbe più vicino al genere Ferocactus Britton & Rose che alle altre specie di Echinocactus (Butterworth & Wallace 1999, 8: 7). Un caso opposto è quello del genere Echinomastus Britton & Rose, riconosciuto come monofiletico sulla base delle evidenze molecolari (Porter 1999, 7: 5-6), e assimilato in Sclerocactus Britton & Rose dall’ICSG (Hunt et al. 2006, text: 259). Non stiamo esprimendo un giudizio sulla bontà delle decisioni prese, ma vogliamo sottolineare che ci sembrerebbe più corretto seguire le scelte con coerenza. O seguire i metodi di Hennig, oppure considerare il dato molecolare-cladistico come uno dei tanti che concorrono a definire un taxon; ne più e ne meno di un qualsiasi altro dato morfologico o fisiologico. Questo riavvicinerebbe così la cladistica a quella prerogativa di oggettività sostituita troppo spesso da un’astratta valenza risolutiva, che ne rende a volte ibridi l’utilizzo e i risultati. D’accordo con l’idea basica espressa da Darwin (1872 / ed. it. 1967, 485) e da altri dopo di lui, riteniamo che la classificazione si debba fondare sulla valutazione dell’insieme dei caratteri, raccogliendo il maggior numero di dati possibile, e senza dare la prevalenza ad alcuni. Per qualsiasi scuola di pensiero è importante un approccio chiaro sostenuto da un metodo il più possibile univoco, che non muti a seconda delle necessità. Prendiamo uno tra i tanti esempi. Se il diverso colore del fiore in popolazioni che costituiscono una specie (anche se legato ad una localizzazione geografica all’interno del suo range) non può rappresentarne l’elemento distintivo per riconoscervi altri taxa oltre a quello della specie in questione, come nel caso di Parodia werneri Hofacker e Parodia werneri ssp. pleiocephala (N. Gerloff & Königs) Hofacker, ora giustamente assimilati come sinonimi in Parodia crassigibba (F: Ritter) N. P. Taylor (Hunt et al. 2006, atlas: 310, tav. 310.6, 311, tav. 311.1, 311.2); non capiamo perché in un caso analogo, il diverso colore del fiore e una distribuzione più a nord nell’area della specie, possano fare di Ferocactus covillei Britton & Rose un taxon distinto, anche se a livello di sottospecie come Ferocactus emoryi ssp. covillei Hunt & Dimmitt, rispetto a Ferocactus emoryi (Engelmann) Orcutt (Hunt & Dimmitt 2005, 20:16; Hunt 2005, 20: 27, 29, tav. 4-7; Hunt el al. 2006, text: 120; atlas: 377, tav. 377.4, 377.5, 378, tav. 378.1). Per rispondere alla seconda domanda, vale a dire se la tassonomia deve corrispondere a criteri filogenetici, diremmo che se da una parte, consapevoli che le specie si trasformano, aderiamo alla visione genealogica della tassonomia di Darwin seguendo i metodi di Hennig, dall’altra ci rendiamo conto che nella classificazione utilizziamo ancora il sistema gerarchico di Linneo. Ora come è possibile che elementi in perenne fluttuazione come le specie svelate dalla teoria sull’evoluzione possano essere incasellate in categorie statiche come quelle di Linneo? Il motivo è semplice: il processo di speciazione è come tutti sappiamo molto lento, le sue evoluzioni non sono percepibili dai nostri sensi e i tempi non sono misurabili in termini di vite umane. Quindi indipendentemente dalla visione evoluzionistica, naturale, dell’idea di specie, quello che cogliamo tutti i giorni con i nostri sensi (il nostro umwelt) è in realtà la stessa idea statica di specie che era sotto gli occhi di Linneo. Ecco perché il suo sistema è ancora insuperato: corrisponde all’unico modo possibile per noi di percepire il mondo che ci circonda.

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Riepilogo e conclusioni

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